La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LII

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Libro primo
Capitolo LII

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Mandatomi il Papa tutte le gioie, dal diamante in fuora, il quale per alcuni sua bisogni lo aveva impegnato a certi banchieri genovesi, tenevo tutte l’altre gioie, e di questo diamante avevo solo la forma. Tenevo cinque bonissimi lavoranti, e fuora di questa opera facevo di molte faccende; in modo che la bottega era carica di molto valore d’opere e di gioie, d’oro e di argento. Tenendo in casa un cane peloso, grandissimo e bello, il quale me lo aveva donato il duca Lessandro, se bene questo cane era buono per la caccia, perché mi portava ogni sorta di uccelli e d’altri animali che ammazzato io avessi con l’archibuso, ancora per guardia d’una casa questo era maravigliosissimo. Mi avenne in questo tempo, promettendolo la stagione innella quale io mi trovava, innell’età di ventinove anni, avendo preso per mia serva una giovane di molta bellissima forma e grazia, questa tale io me ne servivo per ritrarla, a proposito per l’arte mia: ancora mi compiaceva alla giovinezza mia del diletto carnale. Per la qual cosa, avendo la mia camera molto apartata da quelle dei mia lavoranti, e molto discosto alla bottega, legata con un bugigattolo d’una cameruccia di questa giovane serva; e perché molto ispesso io me la godevo; (e se bene io ho aùto il piú legger sonno che mai altro uomo avessi al mondo, in queste tali occasioni de l’opere della carne egli alcune volte si fa gravissimo e profondo); sí come avvenne, che una notte in fra l’altre, essendo istato vigilato da un ladro, il quale sott’ombra di dire che era orefice, aocchiando quelle gioie disegnò rubarmele, per la qual cosa sconfittomi la bottega, trovò assai lavoretti d’oro e d’argento: e soprastando a sconficcare alcune cassette per ritrovare le gioie che gli aveva vedute, quel cane ditto se gli gettava a dosso, e lui con una spada malamente da quello si difendeva; di modo che piú volte il cane corse per la casa, entrato innelle camere di quei lavoranti, che erano aperte per esser di state. Da poi che quel suo gran latrare quei non volevan sentire, tirato lor le coperte da dosso, ancora non sentendo, pigliato per i bracci or l’uno or l’altro, per forza gli svegliò, e latrando con quel suo orribil modo, mostrava loro il sentiero avviandosi loro inanzi. E’ quali veduto che lor seguitare non lo volevano, venuto a questi traditori a noia, tirando al detto cane sassi e bastoni, (e questo lo potevano fare, perché era di mia commessione che loro tutta la notte tenessimo il lume), per ultimo serrato molto ben le camere, il cane, perso la speranza de l’aiuto di questi ribaldi, da per sé solo si messe all’impresa; e corso giú, non trovato il ladro in bottega, lo raggiunse; e combattendo seco, gli aveva di già stracciata la cappa e tolta; e se non era che lui chiamò l’aiuto di certi sarti, dicendo loro che per l’amor di Dio l’aiutassimo difendere da un cane arrabiato, questi credendo che cosí fussi il vero, saltati fuora iscacciorno il cane con gran fatica. Venuto il giorno, essendo iscesi in bottega, la vidono sconfitta e aperta, e rotto tutte le cassette. Cominciorno ad alta voce a gridare - oimè, oimè! - onde io resentitomi, ispaventato da quei romori mi feci fuora. Per la qual cosa fattimisi innanzi, mi dissono: - Oh sventurati a noi, che siamo stati rubati da uno che ha rotto e tolto ogni cosa! - Queste parole furno di tanta potenzia, che le non mi lasciorno andare al mio cassone a vedere se v’era drento le gioie del Papa: ma per quella cotal gelosia ismarrito quasi affatto il lume degli occhi, dissi che loro medesimi aprissino il cassone, vedendo quante vi mancava di quelle gioie del Papa. Questi giovani si erano tutti in camicia; e quando di poi aperto il cassone videro tutte le gioie e l’opera d’oro insieme con esse, rallegrandosi mi dissono: - E’ non ci è mal nessuno, da poi che l’opera e le gioie son qui tutte; se bene questo ladro ci ha lasciati tutti in camicia, causa che iersera per il gran caldo noi ci spogliammo tutti in bottega e ivi lasciammo i nostri panni -. Subito ritornatomi le virtú al suo luogo, ringraziato Idio, dissi: - Andate tutti a rivestirvi di nuovo, e io ogni cosa pagherò, intendendo piú per agio il caso come gli è passato -. Quello che piú mi doleva, e che fu causa di farmi smarrire e spaventare tanto fuor della natura mia, si era che talvolta il mondo non avessi pensato che io avessi fatto quella finzione di quel ladro sol per rubare io le gioie; e perché a papa Clemente fu detto da un suo fidatissimo e da altri, e’ quali furno Francesco del Nero, il Zana de’ Biliotti suo computista, il vescovo di Vasona e molti altri simili: - Come fidate voi, beatissimo Padre, tanto gran valor di gioie a un giovine, il quale è tutto fuoco, ed è piú ne l’arme inmerso che ne l’arte, e non ha ancora trenta anni? - La qual cosa il Papa rispose, se nessun di loro sapeva che io avessi mai fatto cose da dare loro tal sospetto. Francesco del Nero, suo tesauriere, presto rispose dicendo. - No, beatissimo Padre, perché e’ non ha aùto mai una tale occasione -. A questo il Papa rispose: - Io l’ho per intero uomo da bene, e se io vedessi un mal di lui, io non lo crederrei -. Questo fu quello che mi dette il maggior travaglio, e che subito mi venne a memoria. Dato che io ebbi ordine a’ giovani che fussino rivestiti, presi l’opera insieme con le gioie, accomodandole meglio che io potevo a’ luoghi loro, e con esse me ne andai subito dal Papa, il quale da Francesco del Nero gli era stato detto parte di quei romori, che nella bottega mia s’era sentito; e subito messo sospetto al Papa. Il Papa piú presto immaginato male che altro, fattomi uno sguardo adosso terribile, disse con voce altiera: - Che se’ tu venuto a far qui? che c’è? - ècci tutte le vostre gioie e l’oro, e non manca nulla -. Allora il Papa, rasserenato il viso, disse: - Cosí sia tu il benvenuto -. Mostratogli l’opera, e in mentre che la vedeva, io gli contavo tutti gli accidenti del ladro e de’ mia affanni, e quello che m’era di maggior dispiacere. Alle qual parole molte volte si volse a guardarmi in viso fiso, e alla presenza era quel Francesco del Nero, per la qual cosa pareva che avessi mezzo per male non si essere aposto. All’ultimo il Papa, cacciatosi a ridere di quelle tante cose che io gli avevo detto, mi disse: - Va’, e attendi a essere uomo da bene, come io mi sapevo.