La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LXVI

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Libro primo
Capitolo LXVI

../Capitolo LXV ../Capitolo LXVII IncludiIntestazione 14 luglio 2008 75% Autobiografie

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Un giorno fra gli altri, vicino a l’ora del vespro, mi venne occasione di trasferirmi fuor delle mie ore da casa alla mia bottega; perché avevo la bottega in Banchi, e una casetta mi tenevo drieto a Banchi, e poche volte andavo a bottega; ché tutte le faccende io le lasciavo fare a quel mio compagno che avea nome Felice. Stato cosí un poco a bottega, mi ricordai che io avevo a ’ndare a parlare a Lessandro del Bene. Subito levatomi e arrivato in Banchi, mi scontrai in un certo molto mio amico, il quale si domandava per nome ser Benedetto. Questo era notaio e era nato a Firenze, figliuolo d’un cieco che diceva l’orazione, che era sanese. Questo ser Benedetto era stato a Napoli molt’ e molt’anni; dipoi s’era ridotto in Roma, e negoziava per certi mercanti sanesi de’ Chigi. E perché quel mio compagno piú e piú volte gli aveva chiesto certi dinari, che gli aveva aver dallui di alcune anellette che lui gli aveva fidate, questo giorno, iscontrandosi in lui in Banchi li chiese li sua dinari in un poco di ruvido modo, il quale era l’usanza sua; ché il detto ser Benedetto era con quelli sua padroni, in modo che, vedendosi far quella cosa cosí fatta, sgridorno grandemente quel ser Benedetto, dicendogli che si volevano servir d’un altro, per non avere a sentir piú tal baiate. Questo ser Benedetto il meglio che e’ poteva si andava con loro difendendo, e diceva che quello orefice lui l’aveva pagato, e che non era atto a affrenare il furore de’ pazzi. Li detti sanesi presono quella parola in cattiva parte e subito lo cacciorno via. Spiccatosi dalloro, affusolato se ne andava alla mia bottega, forse per far dispiacere al detto Felice. Avvenne, che appunto innel mezzo di Banchi noi ci incontrammo insieme: onde io, che non sapevo nulla, al mio solito modo piacevolissimamente lo salutai; il quale con molte villane parole mi rispose. Per la qual cosa mi sovvenne tutto quello che mi aveva detto il negromante; in modo che, tenendo la briglia il piú che io potevo a quello che con le sue parole il detto mi sforzava a fare, dicevo: - Ser Benedetto fratello, non vi vogliate adirar meco, che non v’ho fatto dispiacere, e non so nulla di questi vostri casi, e tutto quello che voi avete che fare con Felice, andate di grazia e finitela seco; che lui sa benissimo quel che v’ha a rispondere; onde io, che none so nulla, voi mi fate torto a mordermi di questa sorte, maggiormente sapendo che io non sono uomo che sopporti ingiurie -. A questo il detto disse, che io sapevo ogni cosa e che era uomo atto a farmi portar maggior soma di quella, e che Felice e io eramo dua gran ribaldi. Di già s’era ragunato molte persone a vedere questa contesa. Sforzato dalle brutte parole, presto mi chinai in terra e presi un mòzzo di fango, perché era piovuto, e con esso presto gli menai a man salva per dargli in sul viso. Lui abbassò il capo, di sorte che con esso gli detti in sul mezzo del capo. In questo fango era investito un sasso di pietra viva con molti acuti canti, e cogliendolo con un di quei canti in sul mezzo del capo, cadde come morto svenuto in terra; il che, vedendo tanta abondanzia di sangue, si giudicò per tutti e’ circostanti che lui fossi morto.