La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XCII

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Libro primo
Capitolo XCII

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Tornato alla bottega mia, messi mano con gran sollecitudine a finire l’anello del diamante; el quale mi fu mandato quattro, i primi gioiellieri di Roma; perché era stato detto al Papa, che quel diamante era legato per mano del primo gioiellier del mondo in Vinezia, il quale si chiamava maestro Miliano Targhetta, e per esser quel diamante alquanto sottile, era impresa troppo difficile a farla sanza gran consiglio. Io ebbi caro e’ quattro uomini gioiellieri, infra i quali si era un milanese domandato Gaio. Questo era la piú prosuntuosa bestia del mondo, e quello che sapeva manco e gli pareva saper piú: gli altri erano modestissimi e valentissimi uomini. Questo Gaio innanzi a tutti cominciò a parlare e disse: - Salvisi la tinta di Miliano e a quella, Benvenuto, tu farai di berretta; perché sí come ’l tignere un diamante è la piú bella e la piú difficil cosa che sia ne l’arte del gioiellare, Miliano è il maggior gioielliere che fussi mai al mondo, e questo si è il piú difficil diamante -. Allora io dissi, che tanto maggior gloria mi era il combattere con un cosí valoroso uomo d’una tanta professione; dipoi mi volsi agli altri gioiellieri e dissi: - Ecco che io salvo la tinta di Miliano; e mi proverrò se faccèndone io migliorassi quella; quando che no, con quella medesima lo ritigneremo -. Il bestial Gaio disse che, se io la facessi a quel modo, volentieri le farebbe di berretta. Al quale io dissi: - Adunque faccendola meglio, lei merita due volte di berretta: - Sí - disse; e io cosí cominciai a far le mie tinte. Messomi intorno con grandissima diligenzia a fare le tinte, le quali al suo luogo insegnerò come le si fanno: certissimo che il detto diamante era il piú difficile che mai né prima né poi mi sia venuto innanzi, e quella tinta di Miliano era virtuosamente fatta; però la non mi sbigottí ancora. Io, auzzato i mia ferruzzi dello ingegno, feci tanto che io non tanto raggiugnerla, ma la passai assai bene. Dipoi, conosciuto che io avevo vinto lui, andai cercando di vincer me, e con nuovi modi feci una tinta che era meglio di quella che io avevo fatto, di gran lunga. Dipoi mandai a chiamare i gioiellieri, e tinto con la tinta di Miliano il diamante, da poi ben netto, lo ritinsi con la mia. Mòstrolo a’ gioiellieri, un primo valent’uomo di loro, il quale si domandava Raffael del Moro, preso il diamante in mano, disse a Gaio: - Benvenuto ha passato la tinta di Miliano -. Gaio, che non lo voleva credere, preso il diamante in mano, e’ disse: - Benvenuto, questo diamante è meglio dumila ducati, che con la tinta di Miliano -. Allora io dissi: - Da poi che io ho vinto Miliano, vediamo se io potessi vincer me medesimo - e pregatogli che mi aspettassino un poco, andai in sun un mio palchetto, e fuor della presenza loro ritinsi il diamante, e portatolo a’ gioiellieri, Gaio subito disse: - Questa è la piú mirabil cosa che io vedessi mai in tempo di mia vita, perché questo diamante val meglio di diciotto mila scudi, dove che appena noi lo stimavamo dodici -. Gli altri gioiellieri voltisi a Gaio, dissono: - Benvenuto è la gloria dell’arte nostra, e meritamente e alle sue tinte e allui doviamo fare di berretta -. Gaio allora disse: - Io lo voglio andare a dire al Papa, e voglio che gli abbia mille scudi d’oro di legatura di questo diamante -. E corsosene al Papa, gli disse il tutto; per la qual cosa il Papa mandò tre volte quel dí a veder se l’anello era finito. Alle ventitré ore poi io portai su l’anello: e perché e’ non mi era tenuto porta, alzato cosí discretamente la portiera, viddi il Papa insieme col marchese del Guasto, il quale lo doveva istrignere di quelle cose che lui non voleva fare, e senti’ che disse al Marchese: - Io vi dico di no, perché a me si appartiene esser neutro e non altro -. Ritiratomi presto indietro, il Papa medesimo mi chiamò: onde io presto entrai, e pòrtogli quel bel diamante in mano, il Papa mi tirò cosí da canto, onde il Marchese si scostò. Il Papa in mentre che guardava il diamante, mi disse: - Benvenuto, appicca meco ragionamento che paia d’importanza, e non restar mai in sin che il Marchese istà qui in questa camera -. E mosso a passeggiare, la cosa che faceva per me, mi piacque, e cominciai a ragionar col Papa del modo che io avevo fatto a tignere il diamante. Il Marchese istava ritto da canto, appoggiato a un panno d’arazzo, e or si scontorceva in sun un piè e ora in sun un altro. La tema di questo ragionamento era tanto d’importanza, volendo dirla bene, che si sarebbe ragionato tre ore intere. Il Papa ne pigliava tanto gran piacere, che trapassava il dispiacere che gli aveva del Marchese, che stessi quivi. Io che avevo mescolato inne’ ragionamenti quella parte di filosofia che s’apparteneva in quella professione, di modo che avendo ragionato cosí vicino a un’ora, venuto a noia al Marchese, mezzo in còllora si partí: allora il Papa mi fece le piú domestiche carezze, che immaginar si possa al mondo, e disse: - Attendi, Benvenuto mio, che io ti darò altro premio alle tue virtú, che mille scudi che m’ha ditto Gaio che merita la tua fatica -. Cosí partitomi, il Papa mi lodava alla presenza di quei suoi domestici, infra i quali era quel Latin Iuvenale, che dianzi io avevo parlato. Il quale, per essermi diventato nimico, cercava con ogni studio di farmi dispiacere; e vedendo che il Papa parlava di me con tanta affezione e virtú, disse: - E’ non è dubbio nessuno che Benvenuto è persona di maraviglioso ingegno; ma se bene ogni uomo naturalmente è tenuto a voler bene piú a quelli della patria sua che agli altri, ancora si doverrebbe bene considerare in che modo e’ si dee parlare di un Papa. Egli ha avuto a dire, che papa Clemente era il piú bel principe che fussi mai, e altrettanto virtuoso, ma sí bene con mala fortuna; e dice che Vostra Santità è tutta al contrario, e che quel regno vi piagne in testa, e che voi parete un covon di paglia vestito, e che in voi non è altro che buona fortuna -. Queste parole furno di tanta forza, dette da colui che benissimo le sapeva dire, che il Papa le credette: io non tanto non l’aver dette, ma in considerazion mia non venne mai tal cosa. Se il Papa avessi possuto con suo onore, mi arebbe fatto dispiacere grandissimo; ma come persona di grandissimo ingegno, fece sembiante di ridersene: niente di manco e’ riservò in sé un tanto grand’odio in verso di me, che era inistimabile; e io me ne cominciai a ’vvedere, perché non entravo innelle camere con quella facilità di prima, anzi con grandissima difficultà. E perché io ero pur molt’anni pratico in queste corte, e’ m’immaginai che qualche uno avessi fatto cattivo uffizio contro a di me; e destramente ricercandone, mi fu detto il tutto, ma non mi fu detto chi fussi stato; e io non mi potevo inmaginare chi tal cosa avessi detto, che sapendolo io ne arei fatto vendette a misura di carboni.