La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XXX

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Libro primo
Capitolo XXX

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Di già era quasi cessata la peste, di modo che quelli che si ritrovavono vivi molto allegramente l’un l’altro si carezavano. Da questo ne nacque una compagnia di pittori, scultori, orefici, li meglio che fussino in Roma; e il fondatore di questa compagnia si fu uno scultore domandato Michelagnolo. Questo Michelagnolo era sanese, ed era molto valente uomo, tale che poteva comparire in fra ogni altri di questa professione, ma sopra tutto era questo uomo il piú piacevole e il piú carnale che mai si cognoscessi al mondo. Di questa detta compagnia lui era il piú vecchio, ma sí bene il piú giovane alla valitudine del corpo. Noi ci ritrovavomo spesso insieme; il manco si era due volte la settimana. Non mi voglio tacere che in questa nostra compagnia si era Giulio Romano pittore e Gian Francesco, discepoli maravigliosi del gran Raffaello da Urbino. Essendoci trovati piú e piú volte insieme, parve a quella nostra buona guida che la domenica seguente noi ci ritrovassimo a cena in casa sua, e che ciascuno di noi fussi ubbrigato a menare la sua cornacchia, ché tal nome aveva lor posto il ditto Michelagnolo; e chi non la menassi, fussi ubbrigato a pagare una cena attutta la compagnia. Chi di noi non aveva pratica di tal donne di partito, con non poca sua spesa e disagio se n’ebbe approvvedere, per non restare a quella virtuosa cena svergognato. Io, che mi pensavo d’essere provisto bene per una giovane molto bella, chiamata Pantassilea, la quali era grandemente innamorata di me, fui forzato a concederla a un mio carissimo amico, chiamato il Bachiacca il quali era stato ed era ancora grandemente innamorato di lei. In questo caso si agitava un pochetto di amoroso isdegno, perché veduto che alla prima parola io la concessi al Bachiacca, parve a questa donna che io tenessi molto poco conto del grande amore che lei mi portava; di che ne nacque una grandissima cosa in ispazio di tempo, volendosi lei vendicare della ingiuria ricevuta da me; la qualcosa dirò poi al suo luogo. Avvenga che l’ora si cominciava a pressare di appresentarsi alla virtuosa compagnia ciascuno con la sua cornacchia, e io mi trovavo senza e pur troppo mi pareva fare errore mancare di una sí pazza cosa; e quel che piú mi teneva si era che io non volevo menarvi sotto il mio lume, in fra quelle virtú tali, qualche spennacchiata cornacchiuccia; pensai a una piacevolezza per acrescere alla lietitudine maggiore risa. Cosí risolutomi, chiamai un giovinetto de età di sedici anni, il quale stava accanto a me: era figliuolo di uno ottonaio spagnuolo. Questo giovine attendeva alle lettere latine ed era molto istudioso. Avea nome Diego: era bello di persona, maraviglioso di color di carne: lo intaglio della testa sua era assai piú bello che quello antico di Antino e molte volte lo avevo ritratto; di che ne aveva aùto molto onore nelle opere mie. Questo non praticava con persona, di modo che non era cognusciuto: vestiva molto male e accaso: solo era innamorato dei suoi maravigliosi studi. Chiamato in casa mia, lo pregai che mi si lasciassi addobbare di quelle veste femminile che ivi erano apparecchiare. Lui fu facile e presto si vestí, e io con bellissimi modi di acconciature presto accresce’ gran bellezze al suo bello viso: messigli dua anelletti agli orecchi, dentrovi dua grosse e belle perle - li detti anelli erano rotti; solo istrignevano gli orecchi, li quali parevano che bucati fussino -; da poi li messi al collo collane d’oro bellissime e ricchi gioielli: cosí acconciai le belle mane di anella. Da poi piacevolmente presolo per un orecchio, lo tirai davanti a un mio grande specchio. Il qual giovine vedutosi, con tanta baldanza disse: - Oimè, è quel, Diego? - Allora io dissi: - Quello è Diego, il quale io non domandai mai di sorte alcuna piacere: solo ora priego quel Diego, che mi compiaccia di uno onesto piacere: e questo si è, che in quel proprio abito - io volevo che venissi a cena con quella virtuosa compagnia, che piú volte io gli avevo ragionato. Il giovane onesto, virtuoso e savio, levato da sé quella baldanza, volto gli occhi a terra, stette cosí alquanto senza dir nulla: di poi in un tratto alzato il viso, disse: - Con Benvenuto vengo; ora andiamo -. Messoli in capo un grainde sciugatoio, il quale si domanda in Roma un panno di state, giunti al luogo, di già era comparso ugniuno, e tutti fattimisi incontro: il ditto Michelagnolo era messo in mezzo da Iulio e da Giovanfrancesco. Levato lo sciugatoio di testa a quella mia bella figura, quel Michelagnolo - come altre volte ho detto, era il piú faceto e il piú piacevole che inmaginar si possa - appiccatosi con tutte a dua le mane, una a Iulio e una a Gianfrancesco, quanto egli potette in quel tiro li fece abbassare, e lui con le ginocchia in terra gridava misericordia e chiamava tutti e’ populi dicendo: - Mirate, mirate come son fatti gli Angeli del Paradiso! che con tutto che si chiamino Angeli, mirate che v’è ancora delle Angiole - e gridando diceva

O Angiol bella, o Angiol degna,
tu mi salva, e tu mi segna.

A queste parole la piacevol creatura ridendo alzò la mana destra, e gli dette una benedizion papale con molte piacevol parole. Allora rizzatosi Michelagnolo, disse che al Papa si baciava i piedi e che agli Angeli si baciava le gote: e cosí fatto, grandemente arrossí il giovane, che per quella causa si accrebbe bellezza grandissima. Cosí andati innanzi, la stanza era piena di sonetti, che ciascun di noi aveva fatti, e mandatigli a Michelagnolo. Questo giovine li cominciò a leggere, e gli lesse tutti: accrebbe alle sue infinite bellezze tanto, che saria inpossibile il dirlo. Di poi molti ragionamenti e maraviglie, ai quali io non mi voglio stendere, che non son qui per questo: solo una parola mi sovvien dire, perché la disse quel maraviglioso Iulio pittore, il quale virtuosamente girato gli occhi a chiunque era ivi attorno, ma piú affisato le donne che altri, voltosi a Michelagnolo, cosí disse: - Michelagnolo mio caro, quel vostro nome di cornacchie oggi a costoro sta bene, benché le sieno qualche cosa manco belle che cornacchie apresso a uno de’ piú bei pagoni che immaginar si possa -. Essendo presto e in ordine le vivande, volendo metterci a tavola, Iulio chiese di grazia di volere essere lui quel che a tavola ci mettessi. Essendogli tutto concesso, preso per mano le donne, tutte le accomodò per di dentro e la mia in mezzo; dipoi tutti gli uomini messe di fuori, e me in mezzo, dicendo che io meritavo ogni grande onore. Era ivi per ispalliera alle donne un tessuto di gelsumini naturali e bellissimi, il quale faceva tanto bel campo a quelle donne, massimo alla mia, che impossibile saria il dirlo con parole. Cosí seguitammo ciascuno di bonissima voglia quella ricca cena, la quale era abundantissima a maraviglia. Di poi che avemmo cenato, venne un poco di mirabil musica di voce insieme con istrumenti: e perché cantavano e sonavano con i libri inanzi, la mia bella figura chiese da cantare la sua parte; e perché quella della musica lui la faceva quasi meglio che l’altre, dette tanto maraviglia, che li ragionamenti che faceva Iulio e Michelagnolo non erano piú in quel modo di prima piacevoli, ma erano tutti di parole grave, salde e piene di stupore. Apresso alla musica, un certo Aurelio Ascolano, che maravigliosamente diceva allo improviso, cominciatosi a lodar le donne con divine e belle parole, in mentre che costui cantava, quelle due donne, che avevano in mezzo quella mia figura, non mai restate di cicalare; che una di loro diceva innel modo che la fece a capitar male, l’altra domandava la mia figura in che modo lei aveva fatto, e chi erano li sua amici, e quanto tempo egli era che l’era arrivata in Roma, e molte di queste cose tale. Egli è il vero che se io facessi solo per descrivere cotai piacevolezze, direi molti accidenti che vi accaddono, mossi da quella Pantassilea, la quale forte era innamorata di me: ma per non essere innel mio proposito, brevemente li passo. Ora, venuto annoia questi ragionamenti di quelle bestie donne alla mia figura, alla quali noi avevamo posto nome Pomona, la detta Pomona, volendosi spiccare da quelli sciocchi ragionamenti di coloro, si scontorceva ora in sun una banda ora in su l’altra. Fu domandata da quella femmina, che aveva menata Iulio, se lei si sentiva qualche fastidio. Disse che sí, e che si pensava d’esser grossa di qualche mese, e che si sentiva dar noia alla donna del corpo. Subito le due donne, che in mezzo l’avevano, mossosi a pietà di Pomona, mettendogli le mane al corpo, trovorno che l’era mastio. Tirando presto le mani a loro con ingiuriose parole, quali si usano dire ai belli giovanetti, levatosi da tavola subito le grida spartesi e con gran risa e con gran maraviglia, il fiero Michelagnolo chiese licenzia da tutti di poter darmi una penitenzia a suo modo. Avuto il sí, con grandissime gride mi levò di peso, dicendo: - Viva il Signore: viva il Signore - e disse, che quella era la condannagione che io meritavo, aver fatto un cosí bel tratto. Cosí finí la piacevolissima cena e la giornata; e ugniun di noi ritornò alle case sue.