Le Laude (1915)/Nota

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CII. Come è da cercare Iesù per sommo diletto, el quale è nostro fine Glossario

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NOTA


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Le rime di fra Iacopone da Todi videro dal secolo xv in poi la luce in parecchie edizioni. Le principali furono: la fiorentina del 14901, considerata come l’editio princeps, la bresciana del 14952 e la veneta del Tresatti, pubblicata nel 16173. Dalla Principe derivarono l’edizione romana di G. B. Modio e la napoletana di Lazzaro Scoriggio4; dalla bresciana le due veneziane di Bernardino Benalio e al Segno della Speranza5.

Ma all’edizione principe quanti sino ad oggi si occuparono del poeta tudertino concordemente riconobbero la maggiore autoritá, sia per ciò che concerne l’autenticitá delle laude in essa raccolte, sia per la lezione, che meglio d’ogni altra sembra conservare le impronte idiomatiche della regione ove il poeta nacque e dettò i suoi carmi spirituali6. Onde io, convinto di far cosa utile agli studi [p. 260 modifica] iacoponici col divulgare un testo ormai quasi introvabile, qualche anno fa ristampai per conto della Societá filologica romana l’edizione bonaccorsiana, limitandomi ad introdurvi le poche modificazioni imposte dall’uso invalso nella pubblicazione degli antichi testi, e che mi parve potessero notevolmente migliorarla7. Ed oggi l’edizione fiorentina, modificata ancora nella grafia, ma fin dove lo consenta il rispetto dovuto a una stampa autorevolissima del Quattrocento, vede nuovamente la luce nella collezione degli Scrittori d‘Italia. Ma perché pubblicare ancora una volta quella stampa, in luogo di tentar finalmente l’edizione critica dei ritmi iacoponici, ripetutamente invocata da Alessandro D’Ancona?8

Il perché esposi nella prefazione all’edizione della Societá filologica; e ad essa senz’altro potrei rimandar il lettore, se frattanto un egregio studioso, il prof. Biordo Brugnoli della R. Scuola normale di Perugia, nella dotta introduzione ad un suo faticoso e diligente lavoro di ricostruzione delle satire iacoponiche, non avesse sollevato molti dubbi sull’autoritá, da me nuovamente affermata, della stampa bonaccorsiana9. Esaminati i codici piú antichi, egli trova che il confronto non è sempre favorevole all’edizione [p. 261 modifica] fiorentina, nella quale rileva difetto di criteri sicuri nell’adozione delle forme grafiche e fonetiche, e tracce di alterazioni dovute all’uso di codici toscani o toscaneggianti; afferma inoltre che l’antichitá dei mss., a cui il Bonaccorsi attinse, è minore di quella che io non mostri di credere; e conclude che «per la ricostruzione del testo originale è non solo utile ma conveniente attingere ad altre fonti non meno e forse piú autorevoli10.

Potrei rispondere a queste osservazioni che io non ho mai ritenuto il testo dell’edizione fiorentina come la forma originale, nella quale primamente apparvero i canti del poeta tudertino, e che non ho escluso si possa in avvenire, quando fortunate ricerche ci portino al ritrovamento di mss. piú antichi di quelli che sono a nostra conoscenza, ricostruire un testo di gran lunga piú attendibile. Ma potrei anche aggiungere: perché il Brugnoli, conoscendo altre fonti «non meno e forse piú autorevoli» della stampa bonaccorsiana, ha tuttavia creduto opportuno di sceglier questa a fondamento dell’edizione critica delle satire iacoponiche, e di contro al testo da lui ricostruito sulle varianti di numerosi codici ha sentito la necessitá di riprodurre integralmente le singole poesie nella lezione data dal Bonaccorsi?

Ma, per non tediare il lettore con polemiche oziose, cercherò di rimettere la questione nei suoi veri termini, riassumendo quanto scrissi altra volta, e brevemente rispondendo alle obbiezioni mossemi dall’egregio studioso perugino.

Io ho ritenuto e ritengo che il maggior valore dell’edizione principe, in confronto non solo di tutte le altre raccolte a stampa, ma ben anco dei codici del xiv secolo, consista nelle fonti a cui il Bonaccorsi attinse e nel metodo da lui tenuto — metodo che non esiterei a dichiarare rigorosamente scientifico — per ricavarne una lezione vicina il piú che fosse possibile all’originale forma umbra. Il proemio del Bonaccorsi ci dá preziose informazioni in proposito, e non parrá superfluo che io lo trascriva integralmente.

Al Nome et honore della sanctissima trinitá: et della gloriosa vergine Maria: et de tutta la corte del cielo. Qualunque persona devota si delecta de havere et leggere le infrascripte laude del beato frate Iacopone da Todi de l’ordine de frati minori, le quali lui compose a diversi [p. 262 modifica] tempi per utilitá et consolatione di coloro che desiderasseno per via de croce et delle virtú seguitare el Signore: sapia per vero come circa la impressione presente, a fine che fusse emendata quanto piú si potesse: et reducta alla puritá anticha, che si trova molto alterata in piú libri: è stata usata questa diligentia, cioè che si sono havute due copie de tale laude cavate studiosamente da doi exemplari Todini assai antichi: et piú copiosi et migliori che si trovino in quella cittá: et doi altri vilumi pur antichi in buona carta, facti con diligentia: de quali uno appare scripto nella cittá de Perugia: dell’anno mcccxxxvi trovato in Firenze: de laude xc et non piú et molti altri volumi de diversi religiosi: et de altre particulare persone, trovati pur in Firenze. Da i quali tutti volumi, et spetialmente da li dicti piú antichi concordati molto insieme, si ha cavata nova copia per dare a l’impressori, servata la simplicitá et puritá anticha secondo quel paese di Todi, del modo di scrivere et de vocaboli, si come è parso a piú persone devote et spirituale che si dovesse fare, senza mutare o agiongere alcuna cosa di novo. Et in tal modo fo cominciata tale impressione a di xii de agosto passato, et continuata come si vede fino al numero centenario de laude, et due piú, non essendo maggior numero, ma piú presto minore in li predicti et molti altri volumi antichi, maxime della dicta citá di Todi, che fu la terrena patria del auctore: et dove se ne trova libri assai: dove etiam lui morí: et sono le sue ossa in veneratione. Non si dice però per questo che lui non facesse maggior numero de laude, né anco si afferma, che tutte queste siano facte da lui, per non se havere di ciò altro di certo. Quanto all’ordine de esse laude, vedendosi quello essere vario et incerto in molti libri: benché li Todini siano quasi ad uno modo, non è parso inconveniente cominciare da quelle due della Madonna: quale è porta et inventrice de ogni gratia, et da poi mettere le piú facile et successive le altre. Et anco distinguere le materie, et metterle insieme al meglio che si ha inteso, sì come si vederá facto. Della vita del prefato beato Iacopone in particulare non pare che si trovi certa narratione: ma della sua perfectione et trasformatione in l’amore divino, assai si vede per suoi scripti: et anco se intende el tempo nel quale lui fu, et scrisse.

Siano adunque confortati li lectori a legere con attentione esse laude simplici quanto al stilo et parole: ma piene di sancta doctrina, et de alti sentimenti in piú de quelle: li quali non potendo cosí intendere essi lectori, vogliano honorarli: et pregare la divina bontá, che li illumini la mente all’intelligentia di quanto bisogna alla salute de l’anime loro.

Le fonti menzionate dall’editore formano dunque tre gruppi distinti: 1°) i due codici todini assai antichi; 2°) altri due codici pur antichi, cioè della prima metá del secolo xiv (un d’essi, il perugino, è datato dal 1336); 3°) molti altri codici presumibilmente [p. 263 modifica] toscani o, per lo meno, trovati a Firenze11. È chiaro che la maggior importanza venne data dall’editore ai due todini assai antichi, i piú antichi di quanti erano allora a Todi; e da essi furon cavate studiosamente le copie che formarono il nucleo della raccolta bonaccorsiana. Orbene, quei mss. non esistono piú. Potranno esserne derivati, come asserisce il Prugnoli, il Tudertino 194 della Comunale di Todi e l’Angelicano 2216; ma il primo di tali codici è indubbiamente della seconda metá del secolo xv, quindi poco attendibile sia per l’autenticitá delle laude e sia per la lezione; e il secondo, importantissimo per essere del secolo xiv e perché meglio d’ogni altro reca intatte le primitive forme umbreggianti, non contiene malauguratamente che quattordici laude. Anche gli altri due codici menzionati, che pure debbono essere stati di grande aiuto all’editore, sono andati perduti. Del ms. perugino del 1336 [p. 264 modifica] il Brugnoli crede di ravvisare una copia nel cod. 1037 della Nazionale di Parigi; ma, in ogni modo, anche questo è del secolo xv e meno utile di altri codici umbri coevi, di cui non s’è ancor potuto rintracciare l’archetipo. Resta il terzo gruppo, quello dei codici toscani o toscaneggianti. Non avendoli l’editore menzionati partitamente, noi siamo anche disposti ad ammettere che si possano identificare con alcuni dei numerosi codici toscani che ancor possediamo. Non saprei dire però quanto e fino a che punto essi siano stati utilizzati. Quali sono adunque le fonti «non meno e forse piú autorevoli» della raccolta bonaccorsiana, alle quali si può ricorrere per la ricostruzione di un testo critico delle poesie iacoponiche?

Per ciò che concerne il difetto di criteri sicuri nell’adozione delle forme grafiche e fonetiche, si può osservare che nel secolo xv la grafia non aveva ancor preso una forma definitiva, e che l’incertezza grafica si rileva in tutti i codici, piú grave anzi negli antichi — com’è naturale — che nei recenti. Perché dunque rimproverarla soltanto alla stampa bonaccorsiana? E, quanto al dubbio espresso dal Brugnoli intorno alla incapacitá dell’editore fiorentino di resistere, lui toscano, alla tentazione di alterare o di sostituire le primitive forme idiomatiche, si può opporre che il Brugnoli non ha elementi sufficienti da avvalorarlo, mancandogli appunto i termini di confronto, cioè i codici tudertini, che soli varrebbero a fargli riconoscere sicuramente le alterazioni e le sostituzioni. Il Bonaccorsi ci dice invece, e non so perché si debba dubitarne, ch’egli preferí la lezione dei testi todini. Ai difetti di questi avrá naturalmente supplito con l’aiuto degli altri due codici umbri, e per le poesie che mss. autorevoli o la tradizione giá formatasi al suo tempo attribuivano a Iacopone, si sará giovato dei mss. toscani e toscaneggianti.

E qual metodo, se non questo appunto del Bonaccorsi, ha in sostanza seguito il prof. Brugnoli nella ricostruzione del testo delle satire? Anch’egli s’è valso di tre gruppi di codici: 1° degli umbri, tra i quali comprende anche l’edizione principe; e ad essi ha dato quasi sempre la preferenza nella scelta della lezione; 2° dei toscani; 3° dei veneti. Ma dai toscani e dai veneti non trasse profitto «se non quando poté ritenere che essi, derivando forse da qualche lontano stipite in certi passi piú fedele all’originale, fossero sfuggiti a qualche manifesto equivoco piú o meno grossolano di trascrizione, da cui vanno tutt’altro che esenti [p. 265 modifica] i testi umbri, i quali attinsero probabilmente a fonte piú diretta, ma furono anche condotti da menanti assai rozzi ed incolti»12. Il Bonaccorsi non potè giovarsi, è vero, dei codici veneti, o almeno non ne fa cenno nel proemio: in compenso però egli aveva i codici todini assai antichi, dai quali nessuno di noi disgraziatamente può trarre profitto. Orbene, se l’acume critico di un egregio studioso come il Brugnoli può dare maggior affidamento di rigore scientifico nello studio dei codici e nella scelta della lezione, ciò non basta a compensare il difetto di quella pura fonte originale a cui attinse il Bonaccorsi, e della quale a noi son giunti soltanto alcuni piccoli e torbidi rigagnoli.

Ma, sempre a proposito della lezione in alcun luogo incerta o toscaneggiante dell’edizione principe, mi sia lecito insistere sopra un concetto da me espresso altra volta e che il Brugnoli non ha creduto opportuno di confutare. Secondo il D’Ancona13, la lingua originale dei ritmi iacoponici doveva esser l’umbra o, meglio, il volgare di Todi. «Se si volesse dare — io scrivevo — un valore assoluto all’opinione dell’illustre critico, bisognerebbe convenire che il testo dell’edizione fiorentina qua e lá si discosta notevolmente da quello che doveva essere il linguaggio tudertino del Duecento. Ma, quando si pensi che l’editio princeps, sebbene risulti dalla concordanza di piú raccolte diverse tra loro per l’etá e per l’origine, si fonda sopra tutto sui due codici todini assai antichi, e che le maggiori divergenze dall’uso umbro si riscontrano specialmente in quelle ultime poesie, della cui autenticitá si può a buon diritto dubitare anche per una certa ineguaglianza di stile, per la banalitá di alcune espressioni e, spesso, per la mancanza di quello che potrebbe chiamarsi ‘sapore’ iacoponico, vien da pensare che il fondo idiomatico primitivo non abbia poi subito nel testo bonaccorsiano troppo profonde modificazioni. Ma c’è di piú. I biografi di Iacopone, che hanno seguito cecamente la tradizione senza curarsi di separare i fatti positivi da tutti i particolari fantastici formatisi per false interpretazioni dei passi autobiografici e per analogia di altre leggende francescane, affermano concordi che l’amor Dei usque ad contemplum sui fu cosí ardentemente sentito dal poeta tudertino, da indurlo a commettere, insieme con [p. 266 modifica] molte altre pazzie, anche quella di affettare il piú profondo disprezzo per la propria cultura e dottrina. Ora non è chi non veda il ridicolo di tale affermazione. Iacopone da Todi aveva fatto i suoi studi di diritto, forse a Bologna; aveva esercitato per lunghi anni la professione di avvocato nella sua cittá natia; aveva fors’anco dettato componimenti in rima prima di darsi a vita spirituale, ed è lecito supporre che non gli fosse ignota la bella fioritura della poesia lirica del suo tempo, i cui spunti e le cui immagini sin troppo profane ricorrono con molta insistenza nelle sue laudi-ballate.

Per quanto profondo fosse l’orrore e il disprezzo degli anni trascorsi nelle vanitá del mondo, come avrebb’egli potuto far getto della propria coltura, di quel patrimonio intellettuale, caro sopra ogni altro perché frutto in ciascuno di inenarrabili fatiche, senza sentirsi miseramente inaridire quella ricca vena poetica, onde, come altrettanti ruscelli, scaturivano i suoi sacri ritmi, schiumeggianti e torbidi talvolta per l’impeto della discesa, ma sempre meravigliosi di vita e di freschezza? Iacopone parlava e componeva nel suo nativo dialetto così come solevano le persone della sua coltura. E non sarebbe giusto rifiutare inesorabilmente come alterazioni illegittime di amanuensi e di editori tutto ciò (e non è gran cosa) che nel testo dell’edizione fiorentina del 1490 sembra discostarsi dalle particolari caratteristiche del dialetto tudertino»14.

Una delle questioni piú difficili e piú lungamente dibattute tra gli studiosi è quella che concerne l’autenticitá dei ritmi attribuiti a Iacopone. Le raccolte primitive dovevano contenere appena una novantina di laude, quante cioè ne contengono i codici del secolo xiv. Ma per la pronta diffusione che le poesie del Nostro ebbero nell’Umbria, nella Toscana e nell’Italia settentrionale (diffusione dovuta, oltre che al merito intrinseco dell’opera iacoponica, anche alla fiera discordia fervente nel seno stesso dell’ordine francescano tra i vari partiti, per alcuno dei quali il nome di Iacopone potè servire quasi di segnacolo in vessillo, e alla aureola di martirio che la leggenda non tardò a creare intorno all’austera figura del poeta tuderte), il primitivo corpo laudistico iacoponico andò a mano a mano aumentando, fino a raggiungere e a sorpassare nel secolo xvii il numero di duecento composizioni. [p. 267 modifica]

Ma la critica ha ormai fatto giustizia di molte false attribuzioni; e mentre dopo lunghi dibattiti ha restituito al Nostro alcuno di quei componimenti, come

Amor de cantate — perché m’hai si ferito,

che qualche erudito con inconsulta audacia gli aveva tolti per attribuirli al poverello d’Assisi, non ha esitato, d’altra parte, a rigettare inesorabilmente come apocrifi i canti dovuti alla larga imitazione iacoponica del xiv e xv secolo15.

È dunque ormai pacifico che l’originaria produzione iacoponica debba restringersi a quel centinaio di ritmi contenuti nei codici del Trecento, vale a dire alle cento e due laude della raccolta bonaccorsiana16. Ma, per converso, tutti, assolutamente tutti i ritmi dell’edizione fiorentina debbono ritenersi autentici?

L’onesta avvertenza del Bonaccorsi: «Non si dice però per questo che lui non facesse maggior numero de laude, né anco si afferma che tutte queste sieno facte da lui per non se havere di ciò altro di certo», ha per me un grande valore. Secondo la prima intenzione dell’editore, la raccolta doveva chiudersi con la xciii lauda, con «Donna del paradiso», la quale «è posta in questo loco — egli scrive — per clausura de le precedente: el principio de le quali è pur da lei [cioè la lauda «O Regina cortese», anch’essa pertinente alla Madonna]: et per uno separamento dalle seguente laude trovate in diversi libri»17. L’autoritá di altri codici consultati, la forza della tradizione, la quale giá sul finire del Quattrocento aveva sanzionato molte attribuzioni, e fors’anco il desiderio — alquanto ingenuo — di raggiungere per il suo vo[p. 268 modifica]lume «el numero perfecto de cento»18, poterono indurre il Bonaccorsi ad aggiungere quelle nove laudi con cui si chiude la raccolta, e sulla cui autenticitá è possibile, secondo me, sollevare qualche dubbio, tenuto conto anche delle annotazioni particolari con che il Bonaccorsi, mosso da quegli scrupoli, che tanto ragionevolmente ci fanno apprezzare l’opera sua di editore illuminato, volle mettere in guardia il lettore19.

Il prof. Brugnoli (è doveroso discutere anche su questo punto la sua opinione per il largo ed esauriente esame ch’egli ha fatto delle stampe e dei codici iacoponici) non condivide i miei dubbi. «Invero — egli scrive — queste [cioè le ultime laude della raccolta] non si trovano, se non per eccezione, in altri mss., specie in quelli estranei alla famiglia umbra. Senonché questo avviene anche per altre laude pur contenute nella Principe e tuttavia non comprese fra le ultime e piú sospette di questa stampa. È appunto il caso dei ritmi: ‘Fede, speme e cantate’; ‘Amor dolce senza pace’ (sic); ‘Omè lascio dolente’. Dovremo noi escludere anche queste dal novero delle laude d’indubbia autenticitá?». No, poiché «quanto sin qui dicemmo — egli continua — intorno allo svolgimento e alla diffusione del materiale laudistico iacoponico, ci porta a concludere che solo gli antichi mss. umbri, e non giá i codici toscani e veneti, possono avere un gran peso nella bilancia»20.

Son lieto che per una volta tanto sia proprio il Brugnoli a riconoscere il maggior valore dell’edizione principe. Senonché gli argomenti, ch’egli adduce, lasciano sempre adito al dubbio da me espresso. E invero, come si può escludere che l’editore stesso dubitasse dell’autenticitá delle ultime laude della sua raccolta, chi metta in relazione le parole del suo proemio con le avvertenze da lui premesse a quelle laude? È questo un elemento di critica che non deve essere trascurato, specie se va unito al giudizio che può farsi sul merito intrinseco di quelle poesie, meno caratteristiche, meno precise nel loro schema metrico e meno [p. 269 modifica] umbreggianti di tutte le altre. Quanto alle tre poesie citate dal Brugnoli, che non si trovano se non nei codici umbri, si potrebbe osservare che anche su quella che incomincia

Oimè! lasso dolente

l’editore fiorentino non ha mancato di esprimere qualche dubbio.

L’avvertenza alla lauda xcvi dice infatti: «Questa lauda seguente era pur nel dicto libro antiquo [nel Perugino del 1336] et ancora in alcuni todini, benché paia assai bassa como la xx in ordine, che incomenza ‘Oimè, lasso dolente’»21.

Ma siano o no queste ultime rime da attribuire sicuramente a Iacopone, il fatto che solo di alcune poche poesie della raccolta bonaccorsiana si possa dubitare, e che il dubbio non sia condiviso da tutti gli studiosi, dimostra che l’edizione principe merita la maggiore fiducia in fatto di attribuzioni.

Ed alla autoritá della Principe il Brugnoli stesso giustamente fa appello22 a proposito della tanto discussa autenticitá della satira

O papa Bonifazio — molt’hai iocato al mondo.

Questa poesia, che fa parte di un gruppo abbastanza numeroso di satire contro i falsi prelati e contro colui che nella mente del fiero assertore della rigida regola francescana appariva come

Lucifero novello — a sedere en papato,

ebbe molta fortuna nel secolo xiv. Nell’ambiente religioso e politico non erano ancora spenti gli echi della feroce lotta combattutasi tra il papa e la parte ghibellina, sostenuta dal re di Francia; in quella satira o, meglio, in quella invettiva Iacopone si fa interprete di tutti i risentimenti provocati dal Caetani e con inaudita violenza di linguaggio, che ha sgomentato i suoi troppo ortodossi commentatori, investe il papa, accusandolo di simonia, di nepotismo, di aviditá verso i soggetti, di sete indomabile di potere, e gli predice l’ultima ruina. I famosi versi profetici:

subito hai ruina — sei preso en tua magione
e nullo se trovòne — a poterte guarire
.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   

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e Dio si t’ha somerso — en tanta confusione,
che onom ne fa canzone — tuo nome a maledire

sembrano alludere alla cattura d’Anagni e alla morte del pontefice, seguita di li a pochi giorni. Il che ha fatto supporre che la poesia sia stata composta a fatti compiuti, cioè dopo il 1303. Ma il contesto della poesia non ammette dubbi: essa è un’invettiva contro Bonifacio ottavo vivo e nella pienezza della sua potenza. E come, d’altra parte, supporre che Iacopone giá molto vecchio, logorato dalla lunga crudele prigionia, e desideroso soltanto della pace del chiostro e della preghiera in comune, si inducesse a scrivere quella fierissima rampogna contro l’alto personaggio testé scomparso dalla scena del mondo?

Di qui due ipotesi: che la poesia non sia stata composta dal Nostro, ma da alcuno dei numerosi nemici del Caetani durante la preparazione del processo, che alla memoria di questo pontefice aveva intentato Filippo il Bello; o che alla poesia scritta da Iacopone nel 1297, mentre si svolgeva la lotta tra i Colonnesi e Bonifacio ottavo e nella famosa protesta di Lunghezza si impugnava la validitá dell’elezione pontificia, si sieno aggiunte piú tardi, cioè dopo la cattura d’Anagni, le strofe che alludono a questo crudele episodio. Ma alla prima ipotesi, sostenuta dal Tenneroni, sembra contrastare il fatto che la poesia si trova nell’edizione principe e cioè nei codici todini piú antichi. Piú attendibile invece appare la seconda, caldeggiata dall’Ozanam23 e ultimamente dal Brugnoli, il quale mette giustamente in rilievo come «la lauda controversa senza le strofe che l’esame critico aveva riconosciute come interpolate» si trova in un manoscritto del Trecento, il cod. Magliabechiano, ii, 6, 6324.

Ma, a parte questi ed altri problemi particolari, la questione dell’autenticitá è veramente fondamentale per la critica della leggenda iacoponica. Tutti sanno che le notizie certe sul poeta tudertino sono molto scarse25, e che le minuziose informazioni sulla vita [p. 271 modifica] da lui trascorsa nelle vanitá del mondo e sulle stranezze commesse durante i primi anni di penitenza sono il frutto della elaborazione di elementi incertissimi, dovuti in parte all’arbitraria ricostruzione di circostanze che sembrano risultare dai passi così detti autobiografici, e in parte alla fantasia del primo anonimo biografo del Quattrocento, del quale giustamente il Novati ha scritto aver fatto opera «non di storico, ma di agiografo». Così nel tudertino, piuttosto che il sacro giullare girovagante pei monti e pei piani dell’Umbria noi amiamo riconoscere col Novati il poeta filosofo, il teorico del misticismo, spoglio di qualsiasi vincolo con le compagnie dei Disciplinati e coi Laudesi, e poetante «pe’ confratelli suoi, per quell’anime ardenti, che sotto il vessillo francescano cercavano al pari di lui la via della croce, l’unione assoluta con la divinitá»26.

Ma pur chi non voglia consentire col Novati in questa nuova, audace figurazione di Iacopone da Todi, e senta di non poter negare ogni valore ai dati tradizionali, dovrá imporsi un rigoroso lavoro di cernita nella farragine delle notizie tramandate dai biografi, per l’accertamento dei dati autobiografici contenuti nelle poesie che possono sicuramente attribuirsi al tudertino. E per il futuro biografo di Iacopone sará, anche per questo verso, preziosissima la raccolta contenuta nell’edizione fiorentina del 1490.




Note

  1. Laude di frate Iacopone da Todi, impresse per ser Francesco Bonaccorsi in Firenze, a di ventiotto del mese di septembre mcccclxxxx.
  2. (2) Laudi del beato frate Iacopone del sacro ordine di frati minori de osservantia, Bressa, per Bernardo de Misintis, 1495.
  3. Le poesie spirituali del beato Iacopone da Todi... accresciute di molti altri suoi cantici nuovamente ritrovati, con le scolie et annotationi..., Venetia, Nicolò Misirini, 1617.
  4. Li cantici del beato Iacopo da Todi, con diligenza ristampati con la gionta di alcuni discorsi et con la vita sua. App. Ippolito Salviano, Roma, 1558. — Li cantici del beato Iacopone da Todi, aggiuntivi alcuni canti cavati da un manoscritto antico non piú stampato, Napoli, Lazzaro Scoriggio, 1615.
  5. Per queste due edizioni cfr. Gamba, Serie dei testi di lingua, Venezia, 1828, nn. 478 e 479.
  6. Cfr. Gamba, op. cit., n. 477, e Ed. Bokhmer, Iacopone da Todi, Prosastücke von ihm, nebst Angaben über Manuscripte, Drucke und Uebersetzungen seiner Schriften, in Romanische Studien, 1 (1871-75), 138. Il D’Ancona nella recente ristampa del suo Iacopone da Todi, il giullare di Dio del secolo XIII, Todi, Casa editrice «Atanòr», 1914, p. 5, scrive: «Quanto piú posso, nel citare mi attengo alla edizione di Firenze 1490, presso il Bonaccorsi, riprodotta ne 1558 dal Modio: edizione condotta su antichi manoscritti di Todi e di Firenze, e la cui autoritá è affermata da G. Ferri nella riproduzione sopraccitata. Possono perciò credersi con molta probabilitá tutte autentiche le rime della stampa bonaccorsiana, sebbene l’editore stesso non osi darne certezza; pur ammettendo tal qualitá in alcune edite dal Tresatti e da altri, le quali in ogni caso servono a meglio determinare la forma e gli intenti della lauda spirituale antica». Il Moschetti (I codici marciani, Venezia, 1883) esprime un giudizio anche piú favorevole all’ediz. principe, che afferma valere «quanto molti codici riuniti dei piú antichi e preziosi».
  7. Laude di frate Iacopone da Todi secondo la stampa fiorentina del 1490 con prospetto grammaticale e lessico a cura di Giovanni Ferri, in Roma, presso la Societá filologica romana, mdccccx.
  8. D’Ancona, op. cit., p. 5, nota 4.
  9. Le satire di Iacopone da Todi ricostituite nella loro piú probabile lezione originaria con le varianti dei mss. piú importanti e precedute da un saggio sulle stampe e sui codici iacoponici per cura di Biordo Brugnoli, ordinario di lettere italiane nella R. Scuola normale maschile di Perugia, in Firenze, per Leo S. Olschki editore, mdccccxiv, p. xiv sgg. Di questo volume e della ristampa del D’Ancona si legga l’ottima recensione di E. G. Parodi nel Marzocco del 28 giugno 1914 (Il giullare di Dio), e. l’articolo di Ciro Trabalza, Il glorioso ritorno di un giullare di Dio: «Iacopone da Todi» di A. D’Ancona, nel Giornale d’Italia del 21 luglio 1914.
  10. Op. cit., p. vi.
  11. Il prof. Brugnoli mi rimprovera (p. cviii) di assegnare i codici todini assai antichi alla fine del xiii secolo e di «far gran caso della differenza di espressione usata [dall’editore] per quei codici assai antichi in confronto di quella adoperata per il cod. Perugino del 1336 e per un altro suo coevo, dei quali l’editore fiorentino dice che erano pur antichi». «Anche a voler dare importanza (egli continua) a questa lieve sfumatura — dico lieve perché l’induzione si fonderebbe tutta sulla mancanza dell’avverbio ‘assai’ mancanza in gran parte compensata dal ‘pur’ — non è possibile rimontare piú indietro del 1300, perché altrimenti sarebbero rimaste escluse da quei codici le laude composte da Iacopone durante e dopo la prigionia, laddove ce ne troviamo invece parecchie se non tutte». Riconosco che l’attribuzione (da me proposta, del resto, con molta circospezione) dei codd. todini piú antichi alla fine del xiii secolo (l’anno 1300 appartiene a quel secolo!) può parere arrischiata, ma non priva di qualsiasi fondamento, in quanto — trattandosi di codd. perduti — non si può ammettere senz’altro ch’essi contenessero le poesie iacoponiche composte durante e dopo la prigionia. Il fatto ch’esse si trovino nei codici del xv secolo derivati dai todini può anche spiegarsi con le aggiunte e le interpolazioni, che il Brugnoli stesso ammette a proposito di altre questioni. Quanto alla distinzione tra i codd. todini assai antichi e i due pur antichi, mi par proprio che il Bonaccorsi abbia voluto stabilire una gradazione cronologica tra i primi e i secondi. A meno che non si tratti di ipersensibilitá grammaticale da parte mia, io son d’avviso che l’avverbio «assai» abbia un significalo ben differente dall’avverbio «pur». La mia induzione si fonda dunque sul diverso significato di due parole diverse, cioè su qualche cosa di piú consistente della «lieve sfumatura», di cui parla il Brugnoli. Pei raffronti di codici e di stampe iacoponiche si veda, oltre lo studio citato del Bokhmer, quello del Tobler nella Zeitschrift für roman. Philologie, iii, 178. Si veda anche A. Feist, Mittheilungen aus älter. Sanml. italienisch. geistlich. Lieder, in Zeitschrift f. rom. Philol., xiii (1889), 115; e gli Inizi di antiche poesie italiane con prospetto dei codici che le contengono e Introduzione alle Laudi spirituali, di A. Tenneroni, Firenze, Leo S. Olschki, 1909.
  12. Op. cit., p. vii.
  13. Op. cit., p 46.
  14. Cfr. la mia prefazione alla ristampa della Societá filologica romana.
  15. Fu il Wadding che attribuí pel primo questa poesia, insieme con l’altra «In fuoco l’amor mi mise», a san Francesco; ma il padre I. Affò dimostrò vittoriosamente la falsitá di tale attribuzione. Cfr. per maggiori particolari A. D’Ancona, op. cit., p. 56, nota 8. Francesco Novati, nel suo discorso L’amor mistico in san Francesco d’Assisi ed in Iacopone da Todi, pubbl. nel volume Freschi e minii del Dugento, Tip. ed. L. F. Cogliati, Milano, mcmviii, conclude a proposito di siffatte attribuzioni (p. 242): «Chi si illude di sorprendere i tripudi amorosi del Nostro [san Francesco] nelle laudi ‘Amor di caritade’, ‘In foco l’amor mi mise’, dimostra (ci sia lecito il dirlo) di non capir nulla di nulla né dell’anima di san Francesco né della storia della lirica sacra italiana».
  16. Cfr. Novati, op. cit., p. 247.
  17. Vedi p. 232.
  18. Veramente la raccolta comprende 102 laude. Ma nella nota alla lauda cii (p. 255) l’editore avverte: «Questa laude extravagante è posta per finire el numero perfecto de cento: benché ne sian due de piú sotto doi numeri, cioè xlvii e lxxvii per inadvertentia: et cusi sono cii laude in tutto». Naturalmente la numerazione è stata corretta in questa ristampa.
  19. Le annotazioni dell’editore si trovano alle pp. 232, 236, 239, 255.
  20. Op. cit., p. cxiiv.
  21. Vedi p. 236.
  22. Op. cit., p. cxlvi sgg. E vedi anche D’Ancona, op. cit., p. 84, n. 2, ove si confuta l’opinione di A. Tenneroni.
  23. A. F. Ozanam, Les poètes franciscains en Italie au XIII siècle, Paris, V. Lecoffre, 1882.
  24. Op. cit., p. cxlix.
  25. La cronologia piú probabile della vita di Iacopone è stata fissata da A. D’Ancona, op. cit., p. 18 in nota. Circa le biografie tradizionali cfr. pure D’Ancona, op. cit., p. 15 e Brugnoli, op. cit., p. civ, nota 1.
  26. Discorso e vol. cit., p. 245 sgg.