Le Mille ed una Notti/Storia degli Uccelli della Montagna di Kaf

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Storia degli Uccelli della Montagna di Kaf
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NOTTE DXLVIII

GLI UCCELLI DELLA MONTAGNA DI KAF.

— Safeddin-Ali, sultano di Damasco, era un principe buono, ma poco religioso ed estremamente vano, che si piccava d’una politica profonda, e credevasi abile, non avendo provata ancora la cattiva fortuna. Eravi alla sua corte lo scheik Ibrahim, soprannominato il Favorito del Profeta, e benchè egli non consultasse mai quel santo dottore, non credendo nel dono dei miracoli compartitogli dal cielo, almeno rispettava, con tutta l’Asia, l’eminenza delle sue virtù e la sublimità del suo sapere.

«Un giorno che conversava seco lui familiarmente, gli disse: — Favorito del Profeta, che cosa pensate voi della prosperità del mio regno, e delle basi su cui l’ho fondato? Io ho studiato gli uomini e da filosofo e come re, e mi vanto di ben conoscerli; è per questo che mi fu impossibile decidermi ad affidare il sigillo e la spada dello stato all’emiro Morad, vostro amico; egli non manca di buon senso e di valore, e con vengo con voi che possiede tutte le virtù di un buon musulmano; ma, caro mio dottore, non è della stoffa da farne un visir. Io ho preferito Schabur, nel quale ho trovato idee più estese e principii meno rigidi, genio, attività, scaltrezza, insomma quanto ci voleva per entrare nelle mie viste e secondarle. L’avvenimento ha giustificata la mia scelta; secondo il piano che gli feci, Schabur ha battuto il sultano d’Aleppo, ne prese le piazze più forti, e lo ridusse a segnare [p. 376 modifica] la pace alle condizioni un po’ dure da me prescritte. Egli mi riconduce ora l’esercito vittorioso, di cui ha ordine di licenziare per via la maggior parte.

«Mentre il mio visir faceva alle frontiere una parte sì brillante da poter forse esserne abbagliato, io teneva a portata della mia scimitarra una testa che rispondevami della sua fedeltà: la testa di suo figlio, a cui ho dato, senza affettazione, il governo della mia capitale. Io vegliava agli affari interni, controllava la condotta degli emiri, dei magistrati e soprattutto de’ miei tesorieri, e conteneva il popolo che il rigor dello imposte faceva mormorare. Finalmente, dopo una guerra felice, che non ha impoverito troppo il mio erario, ho, grazie alle mio cure, ministri abili e fedeli, truppe invincibili, ed un popolo avvezzo alla pazienza ed al lavoro, un popolo che mi teme, e che mi amerà senza dubbio quando gli avrò fatto gustare le dolcezze della pace. Convenite dunque, dottore, che la prudenza umana, di cui dite tanto male, non lascia d’avere il suo pregio e la sua utilità! Io non leggo, come voi, ciò ch’è scritto sulla tavola di luce, ma m’immagino che vi si legga a grossi caratteri: Guai agl’imprudenti!

«— Non ne dubitate, sire,» rispose il saggio Ibrahim, «e sappiate che vi si legge anche: Guai ai superbi! Aimèl la vostra prudenza e prosperità sono forse egualmente vane, ma ritenendole anche reali, son desse vostre, e non vengono forse entrambe dal cielo? Avreste potuto, senza di lui, conoscere il vero e far il bene? O sultano di Damasco, che pensereste d’un cieco che dicesse: Io vedo la strada, o di un paralitico che si vantasse di camminare? —

«Il sultano sorrise di quella grave rimostranza, trattandola da pia intemerata, ma non ebbe il tempo di rispondergli; gli si annunciò che l’emiro Morad, giunto dall’esercito, domandava di riferirgli sul [p. 377 modifica] momento una notizia di molta importanza. L’emiro entrò ed espose la sua notizia, la quale non poteva essere infatti nè più importante, nè più trista. Schabur aveva pubblicato l’ordine che ingiungevagli di licenziare la maggior parte delle truppe, ma il perfido non erasi affrettato di metterlo in esecuzione: i soldati mormorarono, come aveva preveduto, contro un congedo senza motivo, che li rimandava ai vili lavori di cui avevano perduta l’abitudine; ed il visir, sotto pretesto di estinguere il fuoco della sedizione, fece quanto ci voleva per estenderlo sempre più; biasimando mollemente gli ammutinati, parve compiangerli, e scopertosi apertamente ad alcuni ufficiali, parlò del tesoro di Safeddin, facendo intendere che, se ne avesse avuta la chiave, tutti sarebbero rimasti contenti.

«Intanto avvicinavasi ognor più a Damasco, e non n’era distante più di due piccole giornate, quando, vedendo le cose al punto che infine voleva, levò la maschera, e fece ribellare tutto l’esercito: in una parola, era stato proclamato sultano.

«Invano Morad tentò opporsi alla rivoluzione, aveva veduto un pugno di bravi, ch’eransi uniti a lui, tagliati a pezzi dai ribelli, e preferendo alla fine la salvezza del padrone alla gloria di morire come quei fedeli guerrieri, si era schiuso il varco colla scimitarra in pugno, per correre ad annunziar al sultano il pericolo che minacciava la sua persona.

«— Aimè! signore,» aggiuns’egli, «questo pericolo incalza ancor più che non pensiate; Togrul, il degno figlio di Schabur, ha sedotto gli abitanti della vostra capitale e corrotte perfino le vostre guardie, e non aspetta, a quel che mi si disse, se non un corriere del padre per portare su voi le sue scellerate mani. Questo corriere è forse già alle porte di Damasco, e per salvare la vostra sacra testa, ho appena il momento in cui vi parlo. O mio augusto signore, [p. 378 modifica] permettete che vi conduca alla fortezza di Hervat, dove il bravo Selim comanda in vostro nome sotto i miei ordini; colà potrete aspettare che il cielo cambi il cuor de’ ribelli, o confonda la loro audacia; là, almeno, non avrete un soldato che non riponga la sua felicità nel morire ai vostri piedi per difendervi»

NOTTE DXLIX

— Sopraffatto da quel colpo terribile, Safeddin non rispose al fedele Morad che con uno sguardo in cui vedevansi dipinti il dolore e la riconoscenza. Egli si volse poscia verso lo scheik, come per chiedergli il suo parere in una congiuntura così critica. — Partiamo,» gli disse il sant’uomo, «partiamo, o signore, senza differire; riceviamo il male che Allah c’invia, ed aspettiamo il bene che ci riserba. —

«Tosto il sultano incaricò Morad di tener i cavalli pronti ad una porta del serraglio, dov’egli stesso si recò travestito da schiavo insieme allo scheik. Essi partirono tutti e tre, e battendo sempre vie remote, giunsero in salvo a Mervat, sui confini della Palestina.

«Intanto, Schabur avanzavasi verso Damasco coi complici della sua ribellione. Egli fu ricevuto fra gli applausi del popolo, ognor amante di novità; ma quei vani applausi non lo consolarono della fuga del sultano. Schabur, come tutti i grandi colpevoli, pensava che un gran delitto non è funesto al suo autore se non quando non osa o non può consumarlo. Così, allorchè seppe che Safeddin erasi [p. 379 modifica] rifuggito in Mervat, egli spedi tosto un grosso corpo di cavalleria per bloccare strettamente quella fortezza, aspettando di assediarla poi in tutte le forme. Se avesse potuto allontanarsi dalla capitale ove bisognava consolidare il proprio potere, non sarebbesi fidato d’alcuno per un assedio sì importante; ma credè poterlo affidare a Togrul, cui fece partire pochi giorni dopo alla testa delle migliori truppe e coi più valenti ufficiali.

«Il temerario giovane giurò di riprendere il fuggitivo, e cominciò l’assedio in un modo da far credere che non sarebbe molto lungo. In fatti, malgrado la vigilanza di Morad ed il coraggio della guarnigione, animata dal suo esempio, e dalla presenza del sultano, la piazza fu attaccata con tanto ardore e successo, che il vigesimoquinto giorno tutto fu pronto per dare l’assalto. In quel dì, di buon mattino, cinquanta elefanti, disposti di fronte in ordine di battaglia, e carichi di torri, si avanzarono lentamente fin sull’orlo del fossato, e sfilando a destra ed a sinistra, smascherarono l’oste ribelle, di cui avevano nascosti i movimenti. Componevasi dessa di trentamila uomini, e formava una lunga colonna divisa in tre corpi, che, concatenandosi fra loro e sostenendosi a vicenda, marciavano con ordine e risoluzione.

«Gli assediati, ridotti a poche centinaia di combattenti, videro dal disopra della breccia quell’apparecchio formidabile con cupa intrepidezza, senza spavento, nè speranza. — Moriamo,» disse il sultano allo scheik, «cediamo alla mia sventura, che mi toglie persino l’armi segrete che stava preparando. Nel giunger qui, io spedii a Damasco un ufficiale della guarnigione, incaricato di lettere ed istruzioni per alcuni onesti emiri che il torrente della rivoluzione ha certamente trascinato loro malgrado. Ne spedii un altro al sultano di Gerusalemme, per invitarlo a [p. 380 modifica] non tradire la causa dei sovrani, prevenendo le conseguenze del mal esempio che i miei soldati davano alle milizie dei monarchi vicini; e sperava che con un po’ più di tempo queste misure....

«— Il tempo non ci farebbe nulla,» interruppe l’uomo di Dio; «le vostre misure, o signore, non sono riuscite. Il sultano di Gerusalemme non vi teme più, e non vi perdona la pace rovinosa ed umiliante che imponeste al sultano d’Aleppo, suo antico alleato. Egli ha risposto al vostro messo che se ne rimetteva alla decisione del cielo, e che vivrebbe da buon amico col principe che salisse sul trono di Damasco. L’altro ufficiale fu scoperto ed arrestato, e le lettere di cui lo incaricaste pei vostri segreti amici, non serviranno che ad indicare al tiranno le teste da abbattere.

«— Moriamo adunque,» sclamò di nuovo Safeddin; «il cielo lascia trionfare il delitto ed il mio nemico; il cielo, che dovrebbe vendicarmi, vuol la mia perdita.

«— No,» riprese gravemente il santo dottore, «no, il cielo vi vuol salvo, e, cosa che gli rendete men facile, brama correggervi del vostro orgoglio ed istruirvi; egli poteva prevenire lo vostre sciagure, e ripararle, sia coi mezzi da voi scelti, sia con altri d’egual fatta. Ma col medesimo orgoglio vi sareste ostinato a sconoscere la sua provvidenza. Ciò ch’ella avrebbe fatto per voi, celandosi sotto il velo degli umani eventi, l’avreste attribuito agli uomini, ed in ispecial guisa a voi medesimo. La riconoscerete voi almeno nel prodigio di cui siete per essere spettatore? Alzate gli occhi, principe, e guardate l’esercito ausiliare ch’essa vi manda dalle estremità della terra. —

«Il sultano alzò gli occhi, e vide arrivare dalla parte d’Oriente uno stuolo d’uccelli meno [p. 381 modifica] numeroso dell’esercito degli assediati, ma disposto nel medesimo ordine, e che si stese sulle tre divisioni, come una triplice nube. Quegli uccelli, più grossi delle aquile e più neri dei corvi delle nostre regioni, tenevano ciascuno tre pietre, uno nel becco e due negli artigli, e su ciascuna pietra stava scritto il nome del ribelle che doveva colpire. Alla testa dell’avanguardia, e fuor delle file, il generale dell’esercito aereo facevasi notare per le sue penne purpuree e bianche, per la nobiltà del portamento e la fierezza del volo. Due uccelli turchini volavano ai suoi fianchi, e parevano esserne gli aiutanti di campo. Questi ultimi mandarono un gran grido, che fu il segnale della strage universale. In un momento le pietre fatali caddero al loro destino: le teste proscritte furono schiacciate, e di tutta l’oste nemica non rimase vivo che il solo duca, il quale si mise a fuggire verso Damasco con una velocità eguale al suo spavento. Il generale uccello diresse il volo dalla medesima parte; i suoi due officiali calaronsi ai piedi dello scheik, e l’armata vittoriosa, mescendo le sue alle grida di gioia degli assediati, tornò, volando, verso la regione del cielo d’ond’era venuta.

«Il sultano, giulivo della sua liberazione, benchè alquanto spiacente che non v’entrasse per nulla la sua politica, cedè al sentimento religioso che un inaspettato lieto evento fa nascere nell’anima men pia. — Potenza d’Allah,» sclamò egli, «voi eguagliate la sua bontà; chi può comprendere l’una o l’altra? io lo confesso alfine, o dottore, tutto è difficile all’uomo, e nulla lo è a Dio. — In breve, signore, lo vedrete ancor meglio,» rispose Ibrahim. «Lasciamo ai difensori di Mervat la cura di raccogliere le spoglie, e seguiamo lo sciagurato capo di questo esercito di morti; vedremo l’effetto che produrrà nella vostra capitale la strana notizia ch’è ridotto a portarci egli stesso. — [p. 382 modifica]

«Nel medesimo tempo, il santo dottore avendo battuto la terra col piede, se ne vide uscire un piccolo carro d’ebano, in cui il sultano acconsentì a sedere presso di lui. Quattro lunghe trecce di seta attacavansi davanti a quattro anelli d’oro, formando all’altro capo due collari leggeri e comodi; gli uccelli turchini vi introdussero la testa, spiegando un volo proporzionato alla lunghezza delle redini, ed il carro si diresse rapidamente sulla via di Damasco. Del resto, il carro e l’aligera coppia erano avvolti in una nube leggera, trasparente dal di dentro al di fuori, come quelle sottili stoffe che si applicano alle gelosie delle sultane: di modo che, senza essere veduti, i due viaggiatori distinguevano distintamente tutti gli oggetti. Videro dunque a poca distanza da loro il figlio di Schabur che fuggiva a briglia sciolta, e l’augello vincitore, che regolava il volo sul corso del cavallo.»

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NOTTE DL

La sultana, destatasi più tardi del solito, proseguì e mise fine di tal guisa al racconto interrotto dall’alba precedente:

— «Favorito del Profeta,» disse allora Safeddin, «che devo pensare del liberatore sceltomi dal cielo? Chi è codesto maraviglioso augello? D’onde vien egli? ove ha preso l’esercito volante poco fa scomparso? —

«Il santo dottore rispose: — Principe, il vostro liberatore è il simorgo, quest’uccello immortale cui il cielo ha compartita l’intelligenza e la parola, che legge il santo Corano senza commento, e che si dichiarò proselite del Profeta, molto tempo prima ch’esso fosse nato. Egli regna sulla montagna di Kaf, ed è da colà che vi condusse in persona un [p. 2 modifica] distaccamento delle sue numerose schiere. Questa montagna, che circonda la terra come un cerchio di smeraldo, è popolata da animali prodigiosi, di specie a noi ignote, e da creature ragionevoli, più perfette dei figli d’Adamo. È colà che abitano i peri e le peri, i divi maschi e femmine, i genii buoni e cattivi; è là che, come in un arsenale, Allah tiene in riserva le macchine straordinarie della sua provvidenza. Aimè! principe, voi l’avete costretto ad adoperarle per abbattere l’orgoglio della vostra falsa saggezza; profittate almeno del prodigio che gli costaste, e pentitevi d’averne avuto bisogno. —

«Mentre Safeddin ascoltava attentamente le istruzioni d’Ibrahim, Togrul correva verso Damasco con tal rapidità, che vi pervenne la sera del medesimo giorno. Egli trovò il popolo nella gran piazza, occupato delle feste che dava l’usurpatore in occasione della sua incoronazione. La moltitudine lasciando il passo libero per rispetto, Togrul, sempre seguito dal carro invisibile, giunse al piede d’un palco superbamente addobbato, ove vedevasi Schabur circondato da una corte brillante, e seduto su d’un trono d’oro. — Venite, principe, venite a mettere il colmo alla comune gioia,» gridò il tiranno al figlio; «intendiamo da voi stesso i dettagli della vostra vittoria e la sorte del nostro nemico. —

«Togrul salì sul palco come un reo sul patibolo, e narrò in brevi parole la sua dolorosa storia, gli estremi cui aveva ridotta la fortezza, la comparsa degli uccelli neri, e la totale distruzione delle sue soldatesche; finì mostrando in aria il generale nemico, che pareva averlo seguito a Damasco sol per attestare un avvenimento tanto incredibile.

«— Mi si rechino subito le mie frecce,» sclamò Schabur, balzando dal trono. «Vile, prima di pugnalarti, voglio trafiggere sotto i tuoi occhi questo ridicolo mostro, che mi annunci come tuo vincitore — [p. 3 modifica]

«Allora l’uccello immortale, aprendo gli artigli, lasciò cadere sul padre e sul figlio due enormi pietre loro serbate, e con voce terribile, che scosse perfino i minareti, fe’ udire codeste parole: — Gloria a Dio! Guai ai tiranni ed ai loro complici. —

«Gli spettatori, atterriti a tal portento, applicaronsi la minaccia, e prosternatisi al suolo, e chiesto perdono della loro ribellione, fecero, alzandosi, eccheggiare la piazza delle ripetute grida: — Viva il sultano Safeddin Alì! I cuori de’ suoi schiavi sono nelle sue mani; che le teste de’ suoi nemici gli stiano sotto la pianta dei piedi!

«A questi segni di pentimento, che il simorgo aspettava, egli tornò volando alla montagna di Kaf; gli uccelli turchini, slacciatisi, lo seguirono. La nube che circondava il carro dissipandosi, si vide comparire il legittimo sultano ed il favorito del Profeta. Safeddin andò a sedere sul trono che i suoi infedeli sudditi avevano innalzato per Schabur. Colà, volgendo su di essi uno sguardo severo, quel buon principe ebbe pietà della confusione e dello spavento loro, e fe’ segno allo scheik, in piedi sul palco, di rassicurare le atterrite turbe.

«— Musulmani,» disse allora il saggio Ibrahim, «Allah ed il sultano conoscono la sincerità del vostro pentimento: essi v’amano e vi perdonano. Ricordatevi della colpa che degnaronsi dimenticare, e ciò siavi nuovo soggetto di fedeltà; e voi, sublime sultano, fate servire alla comune felicità le virtù ed i lumi impartitivi dal cielo; ma diffidate delle illusioni della saggezza umana, che s’imbarazza nelle proprie sottigliezze, e attira le sciagure, per le precauzioni stesse che prende onde guardarsene. Siate prudente senza orgoglio, e quando avrete fatto quanto da voi dipende, aspettate tutto dal cielo, come se nulla aveste fatto. — [p. 4 modifica]

«Safeddin fece di tali massime la regola della propria condotta, affidò il posto di Schabur al virtuoso Morad, e non intraprese nulla d’importante senza consultare il saggio visir ed il favorito del Profeta; in una parola, diventò un principe religioso e veramente saggio, tanto più che non credeva esserlo.»

— Questa storia, da capo a fondo, è una lezione salutare pei re,» disse Schahriar alla sultana, che cessava in quel punto di parlare. — Sire,» rispos’ella, «vostra maestà si mostra ognor più degna di apprezzarne la morale, per la di lei esattezza nell’adempiere tutti i suoi doveri di monarca e di buon musulmano. Domani, se lo permette, ne comincerò un’altra, che la divertirà forse di più. — L’ascolterò con piacere,» soggiunse il sultano delle Indie; e si alzò per andar ad attendere agli affari del suo impero.

NOTTE DLI

Scheherazade cominciò in codesti sensi la novella promessa la mattina indietro al consorte: