Le tentazioni/L'assassino degli alberi

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L’assassino degli alberi

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Un piccolo uomo Zia Jacobba
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L’assassino degli alberi



VVivevano una volta ad Orune, fierissimo villaggio sardo posto su un’alta montagna, e famoso per le sue inimicizie, due amici, uno povero e l’altro benestante.

Il povero si chiamava Martinu Selix, soprannominato Archibusata (Archibugiata), forse perchè usava moltissimo questa parola come intercalare. Del resto non pareva d’istinti feroci, e l’archibugio egli non poteva usarlo, perchè era tanto povero da non potersene procurare uno col relativo porto d’arma. Faceva il contadino, seminava molto grano, era giovine, forte, di colorito acceso, con nerissimi occhi torvi e sospettosi. [p. 98 modifica]

Sarvatore Jacobbe, il benestante, era invece una specie di piccolo possidente, vestito in costume, ma con giacca di velluto. Aveva tratti signorili, e quando viaggiava portava la polveriera attaccata a un grosso cordone di seta nera. Possedeva bestiame, cavalli, cani, due servi, un gran tratto di terreno piantato a vecchi ulivi ed olivastri; aveva una bella sorella e molta presunzione.

Tutti dicevano:

— Martinu Selix si crede qualche cosa perchè va in compagnia di Sarvatore Jacobbe. Si crede forse che gli dà la sorella per isposa!

Ma Archibusata non ci pensava neppure. Faceva dei servizi delicati all’amico; qualche volta, quando questo era a Nuoro, per affari, o si trovava occupatissimo per le elezioni, Martinu andava all’ovile, guardava se il servo pastore faceva il suo dovere, se le cose andavano bene, e infine rendeva cento altri piccoli servigi. Egli non ne provava alcuna umiliazione, sebbene la bella Paska lo riguardasse quasi come un servo, e lo mettesse spesso in caricatura.

Le donne d’Orune sono belle, superbe, [p. 99 modifica] strane, argute, dotate di selvaggia intelligenza. Parlano in modo meraviglioso, un linguaggio caldo, arguto, pieno di immagini fantasiose; fingono entusiasmo, ira, meraviglia per molte cose; hanno camicie ricamate, corsetti gialli, occhi profondi e bui come la notte. Ballano volentieri, siedono per terra all’orientale, e implorano terribilmente vendetta dal cielo contro le terrene offese.

Il padre di Paska e di Sarvatore, per esempio, era morto in reclusione, condannato, Dio ci liberi, per omicidio. I figliuoli naturalmente dicevano ch’egli era innocente, — e ogni anno Paska, per il funereo anniversario rinnovava la ria, piangendo, strappandosi la cuffia, cantando funebri versi estemporanei: inoltre mandava uno scudo a Nostra Signora di Valverde perch’Ella castigasse tremendamente coloro che testimoniando il falso avevano fatto condannare il defunto.

Paska era ambiziosa e presuntuosa quanto il fratello. Da bambina, secondo il costume del paese, era stata fidanzata ad un uomo tanto ricco quanto maturo. Venuto però in bassa fortuna il fidanzato, la maliziosa bimba non aveva [p. 100 modifica] più voluto sentir parlare di matrimonio. Ora chi sa ciò che ella sognava, quando seduta sui calcagni, sul lucido pavimento della chiesa, agitava lievemente le labbra di melograno, con gli occhioni smarriti in alto, tra i rozzi affreschi della volta.

Era alta e flessuosa, con un rigido profilo bronzino. Sembrava una madonna di bronzo. Gli uomini anche i più benestanti temevano farle la corte: figuriamoci quindi se Martinu Selix osasse neppure guardarla in viso. Egli non lo diceva, ma le era anzi antipatica. Come tutte le donne benestanti di Orune, paese dedito alla pastorizia, Paska sapeva fare a perfezione i formaggelli, il burro, sas tabeddas, le treccie e tante altre cose che si plasmano col formaggio di vacca passato al fuoco. Ora, un giorno Martinu la trovò seduta per terra, accanto al focolare, facendo formaggelli. Per un po’ stette a guardarla freddamente, tossendo e raschiando con famigliarità; poi, non sapendo cosa altro dire, si provò a criticarla sul modo con cui ella terminava i formaggelli, indugiandosi cioè a intagliare o un pulcino o una lepre nella loro estremità. [p. 101 modifica]

— E via, date un colpo così e così, e lasciate di perder tempo a far quelle minchionerie, chè tanto tutto vien masticato! — egli disse.

Ella arrossì e rispose superbamente:

— Cosa ve ne intendete voi? Già! Dalla esperienza fatta sul vostro formaggio!

Allora toccò a Martinu arrossire. Con quelle parole Paska gli buttava in faccia la sua povertà.

— Archibugiata! — gridò fra sè, — se un’altra volta mi parla così la prendo a schiaffi, com’è vero Cristo!

E se n’andò offeso e mortificato.



Ora avvenne che Sarvatore pensò d’innestare tutti gli ulivastri e i vecchi ulivi del suo incolto chiuso.

Voleva farne un bel podere. Era nella vallata dell’Isalle, vicino a questo fiume: un luogo ubertosissimo e bello quanto mai.

Sarvatore fece le cose nel modo splendido con cui i possidenti del Nuorese usano far l’innestatura. Invitò cioè tutti i suoi amici [p. 102 modifica] contadini e gli uomini più capaci d’innestare. Tutti prestano gratis l’opera loro, ma in ricambio godono una bellissima giornata, piena di canti e di pasti abbondanti: più che giorno di fatica può dirsi una festa buccolica, nel doppio senso della parola. Anche i pastori prendono parte alla cerimonia; e un poeta latino, — dato n’esistesse ancor uno, — potrebbe trarre una amenissima egloga da questa festa.

Nel giorno convenuto gli amici di Sarvatore Jacobbe vennero tutti al chiuso, a cavallo, con donne in groppa. E vennero i pastori del padrone, con pecore ancor vive stupidamente legate alla sella, e formaggio fresco entro le bisaccie.

In breve i fuochi furono accesi sotto i vecchi ulivi grigi, e il fumo salì in gloriose colonne su per l’aria profondamente azzurra.

Maggio rideva nella valle: i cavalli frangevano con le loro corse le altissime erbe, i grani ondulavano argentei in lontananza, gli oleandri curvavano sulle acque verdi del fiume i ciuffi dei loro bottoni di cupo corallo. E calde fragranze passavano con la brezza.

I pastori facevano un po’ di tutto. Aprirono [p. 103 modifica] qualche alveare, traendone il miele caldo e giallo come oro liquefatto: scannarono le pecore, le scuojarono, tirandone giù la pelle che si separava azzurrognola dal corpo roseo ed ignudo delle bestie; cucinarono i sanguinacci fra la cenere ardente, e arrostirono le carni su lunghi spiedi di legno, scherzando e ridendo con le donne che li ajutavano.

Paska era naturalmente la regina della festa. Le altre donne, che le stavano intorno come ancelle, non le lasciavano far nulla; ma ella presiedeva, con l’alta persona bisantina che ogni tanto fremeva come gli esili giunchi del fiume.

E un po’ sparsi da per tutto, i contadini segavano attenti, quasi con religione, i contorti olivastri ed i vecchi olivi. Pietro Maria Pinnedda, il famoso innestatore, andava da un gruppo all’altro, guardando coi suoi grandi occhi grigi e maligni. Il suo volto era acceso; un principio di barba gialla gli dorava le guancie.

Infilzata la marza sul tronco reciso, giallo e fresco, lo si attorcigliava strettamente con un tralcio di vincastro; poi lo si ricopriva di terriccio impastato, sul quale il fiero dito di Pietro [p. 104 modifica] Maria, dopo aver ben palpato e premuto intorno alla marza, segnava una croce, augurio e preghiera di buona riuscita.

Alla marza infine s’infilava un piccolo triangolo di foglia di fico d’India, fresco cappuccio contro gl’incipienti e fecondi ardori del sole. Così d’albero in albero, le chiome selvaggie degli ulivastri rotolavano sulle alte erbe fiorite, e gl’innestatori parlavano di banditi, di negozi, d’alberi, di donne e di storie passate. Salivano le alte voci sonore, qualche canto bizzarro, che sembrava il grido selvaggio di un’anima che piangeva cantando, svaniva lontano, fra gli alberi, sotto i quali l’erba serbava una larga ruota di frescura più intensa; svaniva nei silenzi della valle, nel fiume, al di là del fiume. E le zucche arabescate, colme di vino rosso, circolavano, riscaldando vieppiù il sangue di quei fieri uomini dai denti splendidissimi, dalle vesti aspre e scure.

Martinu Selix prestava a tutti ajuto: rideva mostrando tutti i suoi denti stretti, sembrava felice: pareva il sopraintendente di Sarvatore, il quale non faceva nulla, con le mani incrociate sulla schiena e il volto sorridente. [p. 105 modifica]

Qualcuno degli invitati restava urtato dai modi troppo padronali del Selix: specialmente Pretu-Maria Pinnedda lo fissava spesso con uno sguardo metallico e iroso.

Il giovinotto rosso dai grandi occhi grigi e maligni era innamorato di Paska, e provava gelosia dell’amicizia che Sarvatore concedeva al Selix. L’aria di padronanza presa in quel giorno da Martinu lo urtava più che mai, e per urtare Pretu-Maria bastava un soffio d’aria. Già due volte s’eran dette parole aspre, causa il modo di stringer il vincastro. Martinu diceva:

— Non occorre stringerlo molto.

E l’altro asseriva il contrario.

Parlando di Paska, un momento che Sarvatore era lontano, uno disse scherzando, non senza ironia:

— La mariteremo a Martinu Selix.

— Archibugiata! — egli rispose con un fiero lampo negli occhi. — Ti pare una cosa impossibile?

— Archibugiata! — disse l’altro. — Tutto è possibile in questo mondo.

Martinu scrollò le spalle come per dire: se volessi! [p. 106 modifica]

Pretu-Maria arrossì di collera, ma non disse nulla perchè l’argomento gli cuoceva troppo, e capiva che parlavano così in sua presenza per farlo stizzire.

— Se voi siete furbi come l’aquila, io lo sono come la volpe! — pensò.

Ma un momento prima del pranzo, non sapendo come meglio rinnovar a Paska le sue dichiarazioni, le disse con finta amarezza:

— Ora so perchè non mi volete.

— Perchè, avoltojo senza barba? — chiese ella, degnandosi di guardarlo.

— Perchè avete idea di pigliarvi Martinu Selix.

Ella gettò un acuto grido, uno di quei caratteristici gridi che solo le donne d’Orune sanno fare.

— Chi ve l’ha detto?

— Lui stesso.

— Menzogna.

— Che mi sparino se non è vero!

E ripetè il dialogo, aggiungendovi qualche cosa di suo.

Paska si fè buia in volto, e fu per strapparsi la cuffia in segno di umiliazione e di dispetto. [p. 107 modifica] Soddisfatto discretamente, Pretu-Maria la pregò di tacere, di non far scandalo; ma ella, irritata sul serio, prese a dileggiare apertamente Martinu anche durante il pranzo.

Seduti in circolo, per terra, i convitati mangiavano su taglieri di legno e su pezzi di sughero: per posata portavano i coltelli affilati e niente altro. Più che il vino, il miele, raffreddatosi ma non del tutto, condiva il pranzo; in esso immergevano le bianche fette del formaggio fresco, il formaggello arrostito, le lattughe, il pane e persino la carne. Molti lo mangiavano senz’altro, succhiandone tutta la dolcezza e sputando lontano la cera masticata.

Allegri discorsi guizzavano da un capo all’altro; risate sonore vibravano nel rezzo dei vecchi ulivi. A nord e ad oriente le montagne azzurre sfumavano nel dilagare azzurro del fulgido meriggio.

A un tratto tutta l’allegria cessò: una maligna nuvola passò sul lieto convito. Paska diceva, rivolta a Martinu:

— Lo vedete il conte d’Artea, che vuole una dama per moglie! Peccato che ad Orune non ce ne sia! [p. 108 modifica]

Martinu, che finora aveva risposto con calma agli scherzi salati di Paska, finì con l’irritarsi, tanto più che il vino lo rendeva più ardente e sospettoso del solito.

— Lasciami in pace, Paska, che io non ti sto cercando. Lo so bene che sono un mendicante, ma una donna migliore di te posso ben trovarla.

— Eh, sicuro! Nostra Signora di Valverde ci ajuti! Donne come me tu non ne vuoi. Le vuoi.... come te stesso....

— E chi sei tu? Perchè hai due soldi da spenderti? Archibugiata! Ma sta attenta: il mondo è una scala. Chissà che i figli miei non possano far l’elemosina ai tuoi!

Paska diventò rossa come lo scarlatto che orlava la sua gonnella. Disse:

— Per ora posso farla io a te!

Martinu sbattè a terra, violentemente, una piccola tazza di latta piena di vino, che teneva fra le mani, e gridò un insulto contro la fanciulla.

— Martinu! — urlò Sarvatore.

— Non m’importa nulla di te! E di nessuno m’importa! — gridò Martinu, con gli occhi verdi per l’ira. — Siete tanti cani rognosi! Non [p. 109 modifica] dipendo da te, Sarvatore Jacobbe, e forse tu dipendi più da me, che io da te. Non ti devo nulla! Non ti devo nè pane nè grano nè denaro; e tua sorella può far a meno di rinfacciarmi la mia povertà. Povertà non è viltà, Sarvatore Jacobbe, povertà non è viltà. Ma se credi che la mia amicizia possa farti disonore, posso ben....

— Tu sei ubbriaco.

— Ubbriaco sei tu.

— Rognoso!

— Rognoso sei tu.

Basta; ne nacque una disputa fierissima, e per poco macchie di sangue non s’unirono alle chiazze del vino che profanavano l’erba. I due amici si rinfacciarono cose fino allora ignorate dagli astanti; e le loro fronti arsero di rossore, non si sa se più per la collera o per la vergogna.

Le donne strillavano. Bianca per terrore, Paska si pentiva delle sue parole, e con modi insinuanti cercava smorzare il fuoco da lei acceso. E il fuoco fu spento; gli amici parvero anzi riconciliarsi, e Martinu, che voleva andarsene, rattenuto a viva forza, rimase; ma non [p. 110 modifica] alzò più i suoi torvi occhi sul volto di Sarvatore; e questo se ne stette in un canto, sinceramente mortificato per lo scandalo dato.

Si riprese a innestare. Pretu-Maria aveva l’aria d’un uomo vittorioso; ma anche Martinu rideva di tanto in tanto, forzatamente, a misura che i tronchi innestati venivano marcati col segno della croce.



Due giorni dopo Martinu Selix partì per la festa di San Francesco di Lula. Partì sul far della sera, a piedi, a testa nuda: così era il suo voto. La notte lo colse in viaggio: allora il pellegrino cambiò direzione e invece di proseguire verso San Francesco, scese verso l’Isalle e s’appostò fra gli oleandri. A notte alta, mentre la sacra rugiada del cielo pioveva sulla dormiente natura, e l’acqua del fiume rabbrividente rifletteva la gran pace arcana della luna al tramonto, e più distinti salivano i profumi dei giunchi, Archibusata compiè la sua terribile vendetta senz’arma. Strappò le marze dagli alberi innestati con tanta cura e religione. [p. 111 modifica]



Ma nel rivarcare il muro, un uomo gli si rizzò inesorabile davanti; e nel pallido albore lunare brillò la canna d’un fucile.

— Io lo sapevo, faina maligna! — gridò Sarvatore Jacobbe. — Ora potrei ammazzarti come un cane, ma ti farò qualcosa di peggio.

Tre uomini uscirono dai roveti.

— Voi avete veduto, — disse loro Sarvatore. — Questo pellegrino noi non lo uccideremo, non è vero, e non lo denunzieremo neppure, non è vero? Martinu Selix, tu mi servirai gratis, tu mi farai il servo per altrettante settimane quanti alberi hai assassinato.

La strana sentenza echeggiò potente nella gran pace rorida della valle. Martinu Selix proseguì il suo pellegrinaggio; ma al ritorno entrò come servo in casa dei superbi Jacobbe, e per tre anni subì il suo castigo morale e materiale.