Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XCVIII

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Capitolo novantottesimo - Patria e senso

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Il cospiratore non si perdette in discussioni; gli premeva anzitutto di salvare la propria pelle. Seguì Geltrude che lo accompagnò fino al giardino, dietro la casa e gli insegnò la via della fuga, saltando un piccolo muro di cinta allo scopo di arrivare per altra strada alla marina. Intanto Luigi Finocchi giungeva alla polizia. Ma prima di varcarne la soglia, rifletté un istante e questo bastò per ritoglierlo dall’infame proposito.

Ritornò sui suoi passi: aveva mutato decisione. Avrebbe ucciso il violatore della ospitalità accordatagli in sua casa come aveva ucciso il seduttore di Geltrude e l’avrebbe al par di lui buttato a mare. Dopo tutto la colpa era sua, poiché aveva messo il fuoco accanto al pagliaio. Egli non voleva perdere la moglie, rinunziare ai suoi amplessi. La morte dell’amante sarebbe stata sufficiente punizione per lei. Glielo aveva detto tante volte: chiunque tenti rubarmi le tue carezze morrà.

Ritornò a casa: si munì del coltello col quale aveva sgozzato Arturo e andò direttamente alla camera da letto: ivi trovò Geltrude, semisvenuta sopra una sedia. L’afferrò per un braccio e le disse:

- Vieni a vedere, come si puniscono i colpevoli, i traditori.

E la trascinò violentemente nel gabinetto, dove credeva si trovasse ancora il forestiero. Ma quando lo vide vuoto si sentì assalito da un eccesso di furore.

- Dov’è? - gridò alla moglie con voce soffocata - dov’è, boiaccia, il tuo amante?

- È partito, mormorò Geltrude, più morta che viva.

- Partito, fuggito, per opera tua?

- Sì.

- Ebbene, paga tu per lui!

E pronunziando queste parole l’afferrò pei capelli, la trascinò al letticciuolo e colla formidabile lama del suo coltello, le recise la testa.

Quindi si affacciò alla finestra, urlando come un pazzo:

- Eccola! Eccola!

Mostrava, sempre tenendolo per i capelli, il capo troncato di Geltrude, dal cui collo pioveva ancora a fiotti il sangue.

Quel terribile spettacolo fece volgere in fuga i pochi passanti. Ma in breve altri ne sopraggiunsero, e si addensò la folla...

Finocchi continuava ad agitare la testa di sua moglie gridando:

- Eccola! Eccola!

Giunse finalmente la polizia, che non senza stento giunse ad impossessarsi del forsennato, prima che avesse a farle del male, col coltello che ancora brandiva.

Portato alle carceri dovettero mettergli la camicia di forza, perché non avesse ad attentare alla propria vita.

Se non che ricercando il movente del delitto in casa dell’uxoricida, la polizia trovò delle carte, che rivelavano le sue aderenze coi rivoluzionari e a furia di indagini venne a sapere della venuta del cospiratore e della sua fuga. L’istruzione ricostruì il dramma, ma la ragione vacillante del reo, non permise di giungere a chiarire i fatti.

Luigi Finocchi venne condannato all’estremo supplizio e in capo a cinque giorni fui chiamato ad eseguirne la sentenza.

La voce delle condizioni mentali infelici del giustiziando si era diffusa per ogni dove, e si parlava di un movimento che i rivoluzionari intendevano di tentare per sottrarlo al patibolo. Fu quindi fatto venire da Roma buon nerbo di truppa, per evitare qualsiasi inconveniente.
La mattina del 21 luglio, Corneto pareva militarmente occupata.

Uscendo dalle carceri, la carretta sulla quale con me e col paziente stavano due frati incaricati di confortarlo, benché non avesse alcuna conoscenza di sé, fu circondata dai carabinieri.
Giunti ai piedi del palco, lo tirammo giù, e lo portammo su pei gradini di peso, perché non poteva reggersi.

- Giustiziano un morto! - gridò una voce.

- Assassini, ripeté un’altra.

In un momento il subbuglio diventò generale. I fischi intronarono le orecchie. Ma il palco era troppo ben custodito, perché si avesse a temere.

Mentre io compivo l’esecuzione, i tamburi rullavano a più non posso. Venne eseguito qualche arresto e la calma fu ristabilita.

Ma dovetti essere riaccompagnato alle carceri, col mio aiutante, dalla stessa scorta, e partimmo di notte di soppiatto, per evitar dispiaceri.