Misteri di polizia/IX. Le Processure Economiche. F. D. Guerrazzi e i funerali del Generale Colletta

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IX. Le Processure Economiche. F. D. Guerrazzi e i funerali del Generale Colletta

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IX. Le Processure Economiche. F. D. Guerrazzi e i funerali del Generale Colletta
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CAPITOLO IX.

Le Processure Economiche.

F. D. Guerrazzi

e i funerali del Generale Colletta.

La mattina del 23 novembre 1831, gli uffici del commissariato interno di Livorno erano sossopra. Il signor commissario Manetti, il suo coadiutore, il primo e secondo commesso, persino il pacifico e sonnolento custode, erano inquieti, nervosi. Sembrava che quella mattina messer Domineddio avesse posto a quei degnissimi poliziotti un diavolo per capello. Il Bargello, manco a dire, era fuori di sè ed anche fuori dell’ufficio, avendo poco prima, come invaso dal demonio, piantato a precipizio il commissariato alla testa dei suoi migliori segugi, quasi che avesse ricevuto la notizia della scomparsa dei Quattro Mori di Piazza. In sostanza, era accaduto di peggio.

I liberali livornesi, quella mattina, avevano giuocato alla Polizia un tiro birbone, uno di quei tiri che ammazzano col ridicolo una istituzione. Francesco Domenico Guerrazzi, che la pubblicazione della Battaglia di Benevento aveva posto di primo acchito fra i caporioni della nuova scuola romantica e una processura economica per causa politica col contorno di un po’ di relegazione in una amena cittadina illustrata dalla scapigliata musa del Redi nel Bacco in Toscana, aveva addirittura collocato alla testa della gioventù rivoluzionaria livornese, il fratello di lui Temistocle, scultore, Pietro Bastogi che non era ancora nè esule, nè conte, nè parecchie volte milionario, nè presidente di nessun consiglio d’amministrazione di strade ferrate, infine, due o tre altri giovani, i cui nomi la polizia non arrivò a scoprire, avevano ordinato per quella mattina, nella chiesa della Madonna, la celebrazione di un funerale in suffragio dell’anima del generale Pietro Colletta, l’autore della Storia del [p. 60 modifica]Reame di Napoli morto esule dalla patria alcune settimane prima a Firenze.

Sin qui, veramente, nulla di straordinario e da gettare il disordine negli I. e R. uffici del commissariato interno; imperocchè, nella Toscana del 1831, benchè la libertà fosse merce assolutamente proibita e a capo della polizia fosse il cav. Ciantelli, un birro della più bell’acqua, pure il governo, che non aveva intieramente rinnegato le gloriose tradizioni dei tempi di Pietro Leopoldo, amava di mostrarsi umano ed ospitale coi profughi. I patriotti italiani che avevano avuto la fortuna di sottrarsi colla fuga alle forche e alle galere dell’Austria, del duca di Modena, del papa e del re di Napoli, trovavano in Toscana, nella mite e gentile Toscana come anche allora si diceva, non diremo sempre, ma quasi sempre, onesto ricovero, e qualche volta anche uffici pubblici con grave scandalo dei codini indigeni e della I. e R. cancelleria di Vienna, ma sopratutto d’un giornalucolo modenese — la Voce della Verità — dalle cui colonne i sanfedisti più intransigenti di quei tempi ruttavano, tre volte alla settimana, fiamme e bile contro il progresso e la libertà.

Così il Colletta, cacciato da Napoli in seguito ai rivolgimenti del 1821, dopo alcuni anni di relegazione in Moravia, aveva potuto fissare la sua stanza a Firenze e scrivervi, senza mistero e colla collaborazione più o meno velata di Gino Capponi, di Pietro Giordani e di Giambattista Niccolini, tre santi padri del credo liberale, quella sua storia, ove i Borboni sono consacrati all’infamia.

Ma codesta ospitalità non impediva alla Polizia di spiare gli andamenti del partito liberale. La Polizia poteva chiudere un occhio, ma tutti e due, no. Difatti, quella mattina, non solo gli aveva spalancati tutti e due, ma per vederci meglio aveva bravamente inforcato gli occhiali d’ingrandimento.



Quando a Dio piacque, il Bargello fece ritorno in ufficio. Era in faccia del colore del zafferano. [p. 61 modifica]

— E così — l’interrogò il commissario — è vero?...

— Altro che vero, sor commissario — rispose il birro.

— Siamo proprio fritti....

— È una macchina rivoluzionaria, una macchina incendiaria montata nell’officina del dottor Guerrazzi e del sor Pietro Bastogi....

— Le due statue?...

— Per eccellenza anti-politiche, addirittura giacobine.... Se lei vedesse, sor commissario mio!

— Andiamo a vedere.

Che cosa, intanto, era accaduto? Che cosa erano quelle due statue che avevano prodotto sull’animo del Bargello una impressione non minore di quella che vi avrebbe potuto produrre la famosa testa di Medusa, di classica ricordanza?

La vigilia di quel giorno memorabile F. D. Guerrazzi, come lo si chiamava a Livorno, il dottor Guerrazzi e Pietro Bastogi, presa ad imprestito dai baciapile del paese un’aria tra l’ebete e il bigotto, si erano recati da don Gioacchino Pisarelli, curato della chiesa della Madonna, per ordinare un funerale in suffragio di quel povero generale Colletta....

— Se sapesse, reverendo, le sofferenze di quell’anima cristiana!....

— Dio è misericordioso — rispose mellifluamente don Pisarelli, che nella sua beata ignoranza delle cose di questo mondo non sapeva chi fosse l’uomo che in quel tempo i letterati italiani chiamavano con evidente esagerazione il Tacito napoletano; — Dio è misericordioso, e se egli ci fa soffrire quaggiù, gli è perchè noi si possa godere di più le dolcezze del paradiso!

Poi domandò:

— Mi dicano: lor signori hanno il permesso della Polizia?

— Sicuro che ce l’abbiamo — rispose il Guerrazzi e spiegò sotto il naso del reverendo un foglio.

— Quando è così....

— Oh, faremo presto ad intenderci, specie che i quattrini non mancano... A proposito; vorremmo che fosse un [p. 62 modifica]funerale di distinzione e che ai due lati del catafalco fossero poste due statue.... due statue in gesso, che peraltro abbiamo....

— Lor signori hanno detto che hanno il permesso; anche per le statue?

— Ma sicuro.... E poi due statue religiose; si figuri, reverendo!

E quella sera stessa le due statue furono trasportate in chiesa e da Temistocle Guerrazzi collocate a posto.

Esse — almeno secondo quello che il fratello dell’autore della Battaglia di Benevento diceva a don Pisarelli — rappresentavano la Fede e la Carità.

Già l’abbiamo detto che quel povero curato, nelle cose di questo mondo, non ci sapeva leggere...



Il signor commissario, seguito dal Bargello, entrò in chiesa e fece un giro intorno al catafalco, fermandosi dinanzi alle due statue.

— Roba rivoluzionaria — andava intanto borbottando — roba rivoluzionaria!... Poi, preso dal dubbio, domandò al Bargello:

— Ma siete proprio sicuro che non rappresentino la Fede e la Carità?

— Sicurissimo, sor commissario mio... Rappresentano la Vendetta e la Costanza.... Due cose perfettamente anti-politiche....

— Ma....

— O non vede lei, sor commissario caro, che il propagandismo traspira da cima a fondo da quelle due statue? Una di esse stringe il pugnale.... O che ci ha da vedere la Carità o la Fede col pugnale — emblema perfettamente carbonaro?

Quel pugnale messo lì tra le mani della Carità tolse ogni dubbio dall’animo del commissario; e il Manetti, ritornato in ufficio, iniziò subito una processura economica — [p. 63 modifica]cioè, una processura segreta come era uso in quei tempi — contro i fratelli Guerrazzi, Pietro Bastogi e correi.

Citato a comparire dinanzi al tribunale di polizia, l’autore della Battaglia di Benevento non negò la sua partecipazione all’ordinamento del funerale, ma negò recisamente che le statue rappresentassero cosa meno che innocente.

— O che cosa rappresentano, dunque, signor dottore?

— L’una la Costanza — illustrissimo signor commissario — l’altra la Storia, alludendosi colla prima alla fermezza d’animo con che il generale Colletta sopportò i patimenti della sua ultima malattia, colla seconda alla musa che presiede agli studi prediletti dal defunto.

— Ma quel pugnale, signor dottore?

— Oibò, illustrissimo signor commissario — rispose il Guerrazzi con quel suo risolino sarcastico che sconcertava i suoi avversari; — ecco una domanda che fa torto alle sue profonde e vaste cognizioni in fatto di simbolica... Il pugnale non è altro che lo Stilo.... Lei sa, illustrissimo signor commissario, la storia scrive collo stilo...

— Ho capito — s’affrettò a rispondere il Manetti mortificato da quella lezioncina.

Furono anche interrogati Temistocle Guerrazzi e il Bastogi. Il primo, quanto alle statue, rispose che queste erano state da lui copiate da due statue scolpite dal suo maestro, Emilio Demi, per S. M. l’imperatore del Brasile, rappresentanti l’una la Costanza, l’altra la Segretezza. Egli, riproducendole, lasciò intatta la prima e convertì nella Storia la seconda, togliendole dalle mani la chiave indicante segretezza e sostituendovi lo stilo.

Il Bastogi fu interrogato sulla provenienza dei denari coi quali erano state pagate le spese del funerale.

— I denari — rispose il futuro ministro delle finanze italiane — furono messi insieme mercè una colletta...

— E gli oblatori?

— Alla testa di tutti Pietro Bastogi, illustrissimo signor commissario; poi... cosa vuole ch’io ricordi?

E, difatti, il sor Pietro non aggiunse altro, quantunque le esortazioni a parlare non gli fossero mancate. [p. 64 modifica]

Come si vede, il sor commissario, malgrado la sua buona volontà aiutata dalla sua esperienza di vecchio poliziotto non strinse in mano che un pugno di mosche. La processura riuscì una tela di ragno, e il disgraziato lo capì. Laonde, rimettendo gli atti al presidente del Buon Governo, a Firenze, scriveva che le risultanze del procedimento erano parecchio incerte, e che in vista di tale dubbiezza proponeva che s’infliggesse ai due Guerrazzi e al Bastogi una semplice ammonizione.

Il presidente del Buon Governo con una nota riservata dell’11 gennaio 1832, approvava la proposta del commissario interno di Livorno ed „annuiva — sono precise parole del dispaccio del Ciantelli — che per mezzo d’una severa reprimenda fosse ad essi fratelli Guerrazzi e Pietro Bastogi contestata la disapprovazione che il rispettivo loro contegno aveva incontrato presso l’I. e R. Governo e fosse loro fatto energicamente sentire che più probabili e disgustose misure gli sovrastavano, ove colla loro condotta avvenire non smentissero quelle sinistre impressioni che avevano di sè lasciato.„

Si figura il signor lettore il viso che avrà fatto il dottor Francesco Domenico Guerrazzi alla lettura della prosa autorevole dell’illustrissimo signor presidente del Buon Governo?