Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella XXXIII

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Prima parte
Novella XXXIII

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Dui amanti si trovano la notte insieme, e il giovine


di gioia si muore e la fanciulla di dolor s’accora.


Io non credeva giá oggi, né con questa intenzione son venuto qui, signore mie graziose e voi cortesi gentiluomini, pensando di divenir novellatore, non avendo ancora, che mi sovenga, fatto questo ufficio. Ma poi che voi me lo comandate, io voglio piú tosto esser creduto cattivo dicitore che mostrarmi ritroso ai comandamenti vostri. Devete adunque sapere come non è molto ch’in Cesena fu un cittadino, che aveva d’una sua moglie, che giá era morta, un figliuolo chiamato Livio ed una figliuola che aveva nome Cornelia, senza piú; ed erano di etá l’uno di venti anni e l’altra di dicesette. Eravi un altro cittadino non molto lontano d’abitazione da questi, che si truovava una figliuola detta Camilla, molto bella e gentilesca, la quale aveva contratta una sí grande amicizia con Cornelia che non sapeva star un’ora senza lei, di maniera che tutto il dí era seco; e da l’altra parte Cornelia si pagava tanto de la compagnia di Camilla che le pareva quando era seco d’esser in un mar di gioia. E perché un fratello che aveva Camilla, chiamato Claudio, non stava quasi mai ne la cittá, ella il piú de le volte si riduceva con la sua Cornelia. Avvenne che continovandosi questa pratica e veggendo Livio la beltá e i bei costumi di Camilla, egli di lei fieramente s’innamorò; e tanto innanzi si lasciò trasportare e tanto negli amorosi lacci avviluppare che ad altro non sapeva pensare se non a la sua Camilla. E non sapendo discoprir l’amore e la passione che fuor di modo tormentosa sofferiva a nessuno, ma tutto il dí sentendo le sue fiamme farsi maggiori e non sapendo che rimedio pigliare, perdutone il cibo e il sonno, cadde infermo, e si vedeva che a poco a poco andava mancando come fa la neve al sole. Cornelia attendeva con somma diligenza a la cura del fratello, e spesso, non trovando i medici la cagione del male e giudicando quello da passion d’animo esser offeso, gli domandava che cosa si sentiva, che passione aveva, con simili altre domande che in cotai casi si sogliono fare. A la fine Livio a la sorella tutto il suo amore discoperse. La giovane udendo questo, né le parendo tempo di sgridare il fratello, ma piú tosto di confortarlo, l’essortò con amorevoli parole a far buon animo e attender a guarire. Livio a la sorella rispose che rimedio alcuno non conosceva per sanarsi, se Camilla non faceva consapevole del suo amore. Cornelia che a par degli occhi suoi amava il fratello, gli promise che pigliarebbe l’occasione e a la compagna farebbe intender il tutto. Avuta questa promissione da la sorella, parve che Livio alquanto si confortasse e che prendesse un poco di meglioramento. Ora essendo di brigata Cornelia con Camilla e d’uno in un altro ragionamento, come si costuma, travarcando, cominciò con quel piú destro modo che seppe a narrarle come suo fratello per amor di lei si struggeva, pregandola affettuosamente che di lui volesse aver pietá e non lasciarlo miseramente perire. Camilla udendo il parlar de la sua compagna si scusò con lei, mostrando che molto le doleva del mal di Livio, ma che ella non era disposta ad attender a questi innamoramenti, e la pregò che di simil affare piú non le volesse ragionare, perciò che ella gettarebbe via le parole. Restò molto mal contenta Cornelia a questa risposta, e come giovanetta e vergognosa non seppe che dirle piú di quello che detto le aveva. E non osando scoprir al fratello la poco grata risposta di Camilla, o per la fatica che intorno a lui aveva sofferta, o che altro se ne fosse cagione, ella s’infermò d’una grandissima febbre e fu costretta a mettersi nel letto. Il che intendendo la sua compagna Camilla venne a vederla. Livio sentendo la sua cara Camilla esser ne la camera de la sorella, che da la sua era da un sottile e semplice tavolato divisa, e i letti erano a capo per capo solamente separati dal tavolato di modo che ogni bassa parola agiatamente si sentiva, domandò a Cornelia chi fosse seco. Ella rispose che solamente ci era Camilla. Era medesimamente Livio solo. Il perché fatto buon animo e preso piú d’ardire del solito per il tavolato che era in mezzo, cominciò per sí fatta maniera con singhiozzi, lagrime e sospiri a narrarle sue amorose e mortali passioni a Camilla ed umilmente a supplicarla che di lui volesse aver pietá e non lo lasciar finir cosí miseramente la vita sul fiorir degli anni giovinili, che Camilla tutta s’intenerí e si sentí d’uno inusitato ardore infiammarsi da capo a’ piedi, e le pareva pure una fiera crudeltá a non aver compassione di Livio e dargli quell’aiuto che tanto amore meritava. Il perché in questo modo gli rispose: – Livio, io non so se io m’inganno o che pur il fatto sia cosí. Io voglio crederti tutto quello che tu ora m’hai detto, ancor che voi altri giovini sogliate molto volentieri ingannar le semplici fanciulle, e il piú de le volte, quando avete ottenuto l’intento vostro, con i compagni ve ne gloriate e fate che l’ingannate da voi diventano favola del volgo. Il che prima che a me avvenisse vorrei morire, perciò che come la donna ha perduto l’onore, ella ha pur perduto quanto di bene possa aver in questo mondo. Per questo conviene che noi facciamo le cose nostre saggiamente, e che se il tuo amore, come tu dici, verso me è sí grande, che tu mi domandi a mio padre per moglie, che mi rendo certa che non me ti negherá, e cosí averai l’intento tuo onoratamente. – Rimase Livio molto sodisfatto a queste parole ed infinitamente ringraziò la sua Camilla di quanto gli diceva, assicurandola che come fosse guarito tantosto al padre di lei la farebbe richiedere, commendandola sommamente de la sua onestá. Fatto questo, Livio attese a guarire, e sanato che fu, fece che alcuni suoi parenti a nome suo richiesero Camilla al padre di lei per moglie. Ser Rinieri, ché cosí aveva nome il padre di Camilla, conoscendo Livio, a cui giá il padre era morto, esser ricco e di buon parentado e che non aveva se non una sorella da maritare, disse il partito piacerli, ma che non si poteva risolvere determinatamente fin che Claudio suo figliuolo, che a Roma era ito, non ritornava, e che oramai deveva esser di ritorno. Camilla, avendo intesa la risposta del padre, tenne la cosa quasi per fatta, pensando che ’l fratello anch’egli se ne sarebbe contentato. Ed essendo di giá inclinata a l’amore di Livio, cominciò ad amarlo ferventissimamente, e di modo di lui s’accese che non meno ella amava lui che egli facesse lei. Ora, mentre che Claudio tardava a tornare da Roma a Cesena, i dui amanti molte volte parlarono insieme, e cercando d’ammorzar in parte le loro ardentissime fiamme piú le accesero, e un’ora pareva loro un anno che Claudio venisse. E andando pure il ritorno a la lunga, tanto insieme si domesticarono che per parole di presente si presero per moglie e marito, aspettando di consumare il santo matrimonio che Claudio fosse tornato, il quale non dopo molto ritornò. Tornato che fu, il padre parlò seco del parentado che Livio ricercava. Ma Claudio, che che se ne fosse cagione, mostrò molto d’adirarsi, ed allegando certe sue ragioni al padre a ciò che il parentado non si facesse, indusse il vecchio ne la openion sua. Il che dagli amanti inteso, fu loro di grandissimo dispiacere. E perché pare che come una cosa è vietata piú si desideri, Livio e Camilla sommamente desideravano d’esser insieme e godersi amorosamente, dicendo tra loro: – Noi siamo pur maritati e che ciò non sia esser non può. Pertanto come fará mio fratello che tu non sia mio marito? Ma se tu vuoi far a mio modo, tu verrai questa notte a giacerti meco, e poi provederemo al rimanente. La mia fante è consapevole del tutto e t’aprirá l’uscio del giardino a le tre ore di notte. – Rimase con questa conchiusione Livio tanto lieto che esser non poteva piú, e a l’ora ordinata lá se n’andò, e in camera lietamente da Camilla raccolto, quella abbracciò e cominciò a basciare ed ella lui, di modo che tanta allegrezza a Livio occupò il core, che da soverchia gioia soffocato in braccio a Camilla morí. Il che ella veggendo, piena d’amarissimo dolore, chiamò la fante e con essa lei tutta lagrimosa si consegliava ciò che fosse da fare. Ed ecco che sí fiero dolore le strizzò il core che la sfortunata Camilla cascò morta a dosso al suo Livio. La fante veggendo questo, senza sapersi consigliare, cominciò a gridare e mandare i gridi fin a le stelle. Il che sentendo Claudio, si levò di letto, e trovato quello spettacolo e conosciuto Livio, non volendo udir ciò che la fante gli dicesse, a quella diede tre pugnalate e lasciolla per morta. Divolgato il caso la matina, Ramiro Catalano, che per Cesare Borgia governava Cesena, fece essaminar la fante che ancora non era morta, e inteso il caso ebbe modo d’aver Claudio ne le mani, al quale, essendo morta fra dui dí la fante, fece ne la cittadella di Cesena tagliar la testa. E i dui sfortunati amanti furono con general pianto di tutta Cesena sepelliti ne la chiesa dei frati minori.


Il Bandello a l’illustrissima e valorosa signora


la signora Lodovica Sanseverina e Landriana


contessa e signora di Pandino salute


Questo luglio ultimamente passato, essendo da la legazione sua del reame di Portogallo ritornato in Italia monsignor vescovo Chieregato, che a quel re da Leone decimo sommo pontefice fu per ambasciator mandato, passò per la terra vostra di Pandino per visitare il magnanimo signor Alessandro Bentivoglio e la di lui incomparabile consorte, la vertuosissima eroina la signora Ippolita Sforza, che da voi erano stati invitati a diportarsi in quei vostri bellissimi e ameni luoghi che lungo l’Adda avete, ove copiose peschere ci sono, e in quelli ombrosi boschi fiere d’ogni maniera, per prendersi con la caccia piacer grandissimo. Come voi sapeste la venuta del vescovo, che quella matina era partito da Lodi, cosí cortesemente l’andaste a raccogliere. Egli fatta che ebbe riverenza ai detti signori, voleva partirsi e andar di lungo a Crema; ma voi nol sofferiste a modo veruno. Come poi fu udita la messa, che alora era in ordine per dirsi, voleste che si riducesse in una de le camere, e levatisi i panni da cavalcare che facesse pensiero per quel giorno non partirsi. Desinato che si fu, s’entrò a ragionar del suo viaggio. Onde egli cominciò a narrare le navigazioni ch’ogni anno quel re fa fare a le isole che sono in quel paese nuovo, ove tutto il di il suo imperio va felicemente accrescendo. Egli mostrò ramenti d’oro, perle, pietre preziose ed altre belle cose da quei paesi recate. Mostrò anco alcuni idoli maestrevolmente lavorati di mosaico, che quei popoli adoravano, che omai per la piú parte son fatti cristiani. E cosí narrando di molte cose che aveva inteso, venne a dire d’alcune genti le quali la state e il verno vanno sempre ignude, cosí uomini come femine, e che tra loro ci sono di bellissimi uomini e vaghe donne, con tutto che il colore de le carni loro penda alquanto a lo olivastro. Ma quello che tutti ci fece meravigliare ed insiememente ridere fu che ci narrò un costume molto nuovo e forse piú non udito. Egli disse che giungendo un straniero in quelle lor ville, hanno in usanza d’onorarlo a questo modo: sei o sette degli abitanti di quei luoghi che si conoscono aver per moglieri le piú belle donne che siano tra loro, come il forestiero è giunto, gli presentano le proprie mogli a ciò che a sua scelta sceglia quella che piú de l’altre gli piace; e quella resta la notte a giacersi con lui ed egli amorosamente con quella la notte si trastulla. Per questo il marito d’essa ritenuta è piú stimato ed avuto in prezzo degli altri, e si pensano con questo grandemente onorar gli ospiti loro, di maniera che gelosia tra quelle semplicissime e rozze genti non ha luogo né mai mette lor l’arme in mano. Alora messer Tomaso Castellano, cittadino di Bologna e segretario del signor Alessandro, uomo molto faceto e festevole, interrompendo la narrazione del vescovo rivoltossi a me e mi disse: – Che ti pare, Bandello mio, di cotesto costume? che ne dici tu? Crederesti mai che Gandino bergamasco se capitasse in quelle isole con sua moglie, che ci potesse durare? Io mi fo a credere che se colá arrivasse l’imperadore, non che un semplice forestiero, che mai egli non gli presenteria la sua moglie, né si cureria esser in questo piú apprezzato che gli altri. – A questo tutta la brigata cominciò a ridere, perciò che da tutti la strana e sospettosa natura e la gelosia del bergamasco era pienamente conosciuta. Monsignor vescovo veggendo tutta la compagnia piena di riso, domandò chi fosse cotesto Gandino. La signora Ippolita vòlta al Castellano gli disse: – Messer Tomaso, poi che voi avete messo in campo Gandino, a voi tocca e per forza astretto sète a dire chi egli sia, e quali siano le condizioni sue e i modi ridicoli che usa, a ciò che monsignor nostro non si meravigli de le risa che in tutti ha visto. – Messer Tomaso alora disse quanto gli occorse, ancor che la metá non esplicasse de la castroneria, melensaggine e mellonaggine di Gandino, e conseguentemente degli sfortunati e miseri gelosi, che presumono esser Salamoni e fanno tuttavia le maggiori e segnalate pazzie che si possino imaginare. E veramente il morbo de la gelosia è una micidial peste, che di modo ammorba il petto di colui a chi s’appiglia che non solamente il geloso non ha mai bene, ma né anco lascia altrui riposare. Ché se il marito divien geloso de la moglie, egli in tutto perde ogni quiete e sempre miseramente si tormenta, e in tal maniera la povera moglie travaglia e afflige che ella invidia ai morti. È ben vero che ci sono di quelle sí sagge ed avedute, che come si accorgono che i mariti contra il devere ingelosiscono, gli danno ciò che vanno cercando, ponendo lor in capo l’arme dei Soderini di Firenze. Ora avendo io per commission vostra scritto quanto il Castellano narrò e in forma d’una novella ridotto, quella come frutto nato ne l’amenissimo ed aprico orto del vostro Pandino vi mando e dono, supplichevolmente pregandovi che degnate farla vedere al vostro e mio anzi pur nostro Soavissimo, che cosí volentieri le cose mie legge. Basciovi le mani e prego nostro signor Iddio che vi doni quanto desiderate. State sana.