Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella XXXVIII

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Prima parte
Novella XXXVIII

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Ingegnosa astuzia d’un povero uomo in cavar danari


di mano ad un abbate e da la innamorata d’esso abbate.


L’aver udito ragionar d’uno che per di sopra il tetto se n’andava a trovar la sua amica m’ha fatto sovvenir d’un caso che, essendo io questi dí passati a la corte del re cristianissimo, intesi da signori degni di fede non esser molto che a Parigi era avvenuto. E perché da quello si può comprendere quanto importi la segretezza ne le cose amorose e render cauto e prudente chi ama, credo che non potrá se non giovare che io ve lo dica. Sono qui molti giovini cortegiani del nostro signor marchese i quali credo che tutti deveno esser innamorati, e chi domandasse loro che nomassero quelle donne che amano, parrebbe loro che se li facesse un grandissimo torto a cercar di saper l’innamorate loro. Tuttavia io porto ferma openione che se io mi metto a conversar con loro o vero a spiar ciò che fanno e le contrade per le quali essi passano e le chiese ove vanno, che in otto giorni io saperò dire: – Il tal ama la tale e il tal la tale. – E questa mia cognizione non avverrá per altro se non che communemente i giovini, e quasi per l’ordinario chi ama, sono incauti e rade volte metteno mente a ciò che si fanno. Colui si fida d’una ruffiana che tutto ciò che fa dice a questi e a quelli. Quell’altro adopra un servidore in portar lettere ed ambasciate, e colui ama qualche massara e de l’amor del padrone la rende consapevole; e con un fante d’un gentiluomo praticherá e tra loro si dicono ciò che sanno e non sanno, e le cose che deveriano esser segretissime vanno cicalando e manifestando. Ci sará poi chi ritrovandosi in alcun luogo con la sua innamorata crederá di non esser veduto da persona e fará alcuno atto notabile che altri vederá, e si viene a discoprire pensando d’esser in luogo che nessuno il veggia. Onde si suole proverbialmente dire che le siepi non hanno né occhi né orecchie, e nondimeno assai volte vedeno e senteno ciò che si fa e che si dice, perciò che uno che sia appiattato dietro una siepe vederá ed udirá ciò che da l’altra banda si dirá. Onde conviene a chi vuol esser segreto che abbia la mente per tutto e non tenga gli occhi chiusi. Ma venendo a la mia novella che intendo narrarvi, vi dico che in Parigi, cittá molto popolosa e di belle e piacevoli donne abondante, si ritrovò un abbate, e forse ancora v’è, che era molto ricco ed innamorato d’una molto bella donna. E tanto seppe il buon abbate fare e dire e sí bene sollecitar la sua innamorata che ne divenne possessore, godendo insieme felicemente i lor amori. E parendo a l’abbate aver molto ben collocato i suoi pensieri, tutto si diede in preda a la donna che amava, ed altrettanto ne faceva la donna. La domestichezza in Francia degli uomini con le donne è grandissima, e piú facilmente si basciano quivi che qui non si toccano le mani. Fanno spesso dei banchetti e s’invitano domesticamente l’un l’altro, e menano gioiosa e allegra vita avendo da ogni parte bandita la maledetta gelosia. Ora avvenne che un giorno di state, essendo l’abbate con la sua donna in un giardino a diporto, invitati da la freschezza d’un’ombra che faceva un pergolato, non essendo persona nel giardino se non essi dui e portando ferma openione che non ci fosse chi veder li potesse, poi che buona pezza ebbero passeggiato, si corcarono su la molle e fresca erbetta che sotto il pergolato era, ed amorosamente si presero piacere cacciando il diavolo ne l’inferno e tra loro mille scherzi facendo, come talora in simili trescamenti suol avvenire. Copriva una casa al giardino vicina un povero uomo, il quale chiaramente vide tutto quello che i dui amanti fecero, e conoscendo l’abbate e la donna cominciò a far diversi pensieri ne la sua mente. Sapeva egli la donna esser molto ricca e che era moglie d’uno dei gran ricchi de la cittá di Parigi, e pensava se era ben fatto d’avvertir il marito di lei de la disonesta vita che ella teneva, e quasi fu per dar essecuzione a questo pensiero. Da l’altra parte gli pareva pure esser mal fatto a metter una donna in periglio di morte, che a lui niente apparteneva non gli essendo parente. Pensava anco che forse il marito di lei creduto non gli averia cosa che egli detto gli avesse, e non avendo modo di poter provare ciò che diceva, non restava perciò che non infamasse la donna. Gli occorreva anco che di leggero il marito averia potuto sgridar la donna e dirle: – Il tal m’ha detto la sí fatta cosa dei fatti tuoi e che ti ha veduto in cotal giardino giacerti con l’abbate, – e che di leggero la donna ne averia avvertito esso abbate, del che poteva facilmente avvenire che per vendicarsi l’abbate gli avesse fatto rompere il capo. Onde avendo tra sé fatti molti pensieri ed a nessuno appigliandosi e tuttavia chimerizzando e farneticando, a la fine in animo li venne di voler senza pericolo veruno, se possibil era, guadagnar alcuna somma di danari ingannando con una bella invenzione in un medesimo giorno ed in un medesimo modo l’abbate e la donna insieme, e far che l’inganno non apportasse agli amanti altra pena o danno che di danari. Fermatosi in questo pensiero e parendogli esser molto riuscibile, andò a trovar un amico suo, che era di quelli che hanno le botteghe piene di panni vecchi d’ogni sorte, che sono in modo acconci che paiono quasi nuovi, essendone gentilmente levato via con loro arte il sudiciume ed ogni grasso e macchia; e fattosi accomodare di vestimenti che fatti parevano a suo dosso, si mise onestamente in ordine che proprio pareva un fattore di qualche onorato gentiluomo. Come giá vi ho detto, egli conosceva l’abbate e la donna e sapeva che da loro non era conosciuto. Sapeva medesimamente che l’abbate era gran giocatore e che la donna tutto il dí comprava maniglie, catene, fornimenti d’oro battuto da testa, cinture, corone e simili cose da donna, e spesso ne barattava. Il perché non dando indugio a la cosa, fatto buon animo se n’andò a casa de l’abbate a trovarlo e gli fece intendere che aveva da parlar con lui. Intromesso ne la camera de l’abbate, dopo la debita riverenza gli disse: – Monsignore, madama tale mia padrona, – e nominò l’innamorata d’esso abbate, – si raccomanda molto umilmente a la vostra buona grazia e vi supplica con tutto il core che vi piaccia d’accomodarla di ducento scudi dal Sole, che fra un mese ve gli renderá, perché ora le sono venuti a le mani alcuni fornimenti d’oro battuto che una gentildonna fa vendere, e n’ha buonissimo mercato e non vorria perder questa buona ventura, per esser cosa che di rado si truova. Ha fatto il mercato in cinquecento scudi e non se ne truova al presente altri che trecento. E perché mi crediate, m’ha detto che vi dia per contrasegno come martedí prossimo passato, passeggiando voi seco sotto il pergolato del tal giardino, ella vi pigliò una stringa dal sinistro lato. – Aveva veduto il povero compagno essendo sul tetto de la casa come la donna scherzando con l’abbate gli aveva dal giubbone e da le calze dal manco lato levata via la stringa. Udendo l’abbate cosí ben ordita favola, sapendo che nessuno era nel giardino, credette veramente che l’uomo fosse servidore de la sua donna. Onde subito aperta una cassa contò ducento scudi e gli diede a l’uomo, commettendogli che pur assai il raccomandasse a madama, e se di piú danari aveva bisogno che mandasse senza rispetto veruno. Si partí tutto allegro il buon compagno e di lungo se n’andò a casa de la donna, e trovatala in sala con le sue donne, le fece la convenevol riverenza e le disse che aveva da parlar con lei di cosa di credenza. Si levò la donna ed accostatasi a una finestra attese ciò che il messo voleva dire, il quale le disse: – Madama, monsignor l’abbate si raccomanda umilissimamente a la vostra buona grazia. Egli è al Lovere dove giuoca a primiera, e per non trovarsi molti danari in borsa né potendo andar a l’alloggiamento, vi supplica che vogliate fargli grazia di prestargli ducento scudi, che dimane per ogni modo ve li restituirá. E perché mi diate fede di quello che in nome suo vi ricerco, dice che martedí prossimo passato voi gli levaste una stringa; – e disse come a l’abbate aveva detto. La donna senza pensarvi troppo, credendo al messo come a l’abbate averia fatto, andò ne la sua camera e presi i ducento scudi gli recò al messo. Egli come ebbe i danari se n’andò, e rese le vestimenta al suo amico, e vestitosi i suoi vili panni gongolava d’allegrezza di ritrovarsi quattrocento scudi d’oro. Stettero l’abbate e la donna alcuni dí senza parlar dei danari prestati. Poi a caso avendone fatta menzione e non si trovando l’uomo che avuti gli aveva, s’accorsero essere stati ingannati e che erano da alcuno stati visti nel giardino. Onde per l’avvenire fecero le cose loro piú nascosamente che fosse possibile.


Il Bandello al valoroso signor Luigi Gonzaga


detto Rodomonte marchese


Si fanno molte fiate de le cose le quali, innanzi che la fine loro si sappia, molto mal agevolmente si può giudicare se sono di buona sorte o cattiva, seguendo quella regola generale che ogni cosa sortisce la denominazione sua dal suo fine, e quella il cui fine è buono si dice buona, ove per il contrario quella il cui fine è tristo sará anco ella chiamata trista. Sono anco molte operazioni umane de le quali senza che la fine loro si veggia, se tu dirai a uomo di giudicio: – Io vorrei far cosí per tale e tal rispetto, – egli ti saperá molto ben dire se son cattive o no, ben che talora paia che il fine sia riuscito buono. E di questa sorte si veggiono esser infinite azioni ed opere dei prencipi e grandi uomini, i quali il piú delle volte, massimamente essendo giovini e nodriti licenziosamente, metteno fuor di proposito la vita loro a pericolo di morte e di perder in un tratto lo stato e la vita ed insiememente l’onore. Ed ancora che talora si consegua il desiato fine, nondimeno si vede la cosa esser fatta sí fuor di ragione che non può colui che la fa, schifare che maestro Pasquino non canti e dica che molto bene gli sarebbe avvenuto che andando cercando il male, come fanno i medici, se il malanno gli fosse dato; come ben sovente ho sentito dire del signor Gianfrancesco marchese di Mantova vostro zio, il quale ne la sua gioventú andava per Mantova la notte tutto solo con la spada e la rotella, e con quanti s’abbatteva voleva a mal grado loro venir a la mischia e con l’armi far questione, e la faceva il piú de le volte; e non essendo conosciuto ritrovava talora chi lo pettinava senza pettine e gli dava de le ferite, le quali il coraggioso prencipe si portava pur in pace. E se una notte, essendo a le mani con un bravo e gagliardo giovine, non gridava: – Io son Francesco di Gonzaga, – era senza dubio ammazzato. Onde ragionandosi un dí a Diporto di questi capricci che fuor di proposito vengano ai prencipi, e specialmente di quelli del detto signor marchese, a la presenza di madama Isabella da Este sua consorte, il signor Giovanni Gonzaga vostro zio, uomo tanto ragionevole quanto altro ch’io conosca, narrò a questo proposito una istoria, la quale io che l’ascoltai subito scrissi. E sovvenutomi che voi, quella notte che a Castel Gifredo tutta intiera stemmo a ragionar di versi e di cose de la lingua volgare, mi diceste che volevate che io vi donassi una de le mie novelle, questa vi dono e sotto il vostro nome voglio che sia veduta. Se ella poi non è con quel candore scritta che voi le vostre rime cantate, ricordatevi che a tutti non è concesso navigar a Corinto. Pigliate il mio buon animo e sodisfatevi di quello. State sano.