Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XXXV

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Seconda parte
Novella XXXV

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Un gentiluomo navarrese sposa una


che era sua sorella e figliuola non lo sapendo.


Nel tempo de la felice memoria del re Giovanni di Alebret, mio padre e signore e re di Navarra, fu una vedova nobile la quale aveva un figliuolo, senza piú. Questo suo figliuolo essendo de l’etá di quindeci anni s’innamorò d’una donzella de la madre, e sí fieramente n’era innamorato che senza lei non sapeva vivere, di modo che giorno e notte l’era sempre a canto e (per la costuma del paese nostro è che tutti gli uomini sono molto familiari e domestici con le donne), la basciava e scherzava con lei quanto voleva, non vi mettendo fantasia né la madre né altri. Ma egli dei basci punto non si contentava, ed averebbe voluto venire a l’ultimo fine che communemente in amor si ricerca. La giovane, che altro aveva in capo e sapeva che costui per la diseguaglianza che ci era non l’averebbe presa per moglie, se gli mostrava molto ritrosa e non voleva oltra i basci di cosa alcuna meno che onesta compiacergli. Di che il giovine viveva in pessima contentezza e la sua innamorata molto piú che prima molestava, sforzandosi con ogni ingegno ed industria d’indurla a far i suoi voleri. Ma il tutto era indarno, perciò che ella non era disposta a modo alcuno a fargli di sé copia. Onde veggendo ch’egli piú s’accendeva e si mostrava piú bramoso di pervenir a l’ultimo piacer de l’amore, non potendo né volendo sofferir piú cotanta seccaggine, si dispose di far a la madre di lui la cosa manifesta. E cosí un giorno, pigliata l’oportunitá, in questo modo le disse: – Padrona mia, se voi non rimediate a la importunitá del vostro figliuolo, che non mi lascia vivere e vorrebbe levarmi il mio onore, io sarò astretta a partirmi da voi, perciò che egli non mi lascia mai star un’ora che non mi sia a torno e che non mi richieda del mio amore con atti che non mi piaceno. Comandategli che non mi dia fastidio e che mi lasci far i fatti miei e attendere come debbo a servirvi; altrimenti io me ne ritornerò a casa mia. – La vedova, udendo questo amor del figliuolo, disse a la giovane che se egli piú le diceva nulla, che gli desse buone parole e tenesse con speranza, e che ultimamente gli promettesse compiacergli e gli assegnasse la notte, ne la quale ella si metterebbe in vece di lei nel letto suo e farebbe tal scorno al figliuolo che lo farebbe distorre da questa impresa. La giovane piú oltra non pensando fece quanto la padrona l’aveva comandato. La vedova, o ch’ella fosse disonestamente del vietato amor del figliuolo accesa, o che pure in effetto gli volesse far un gran romore in capo per fargliene una gran vergogna, o che che se ne fosse cagione, fece dar la posta al figliuolo da la donzella e in luogo suo andò e si corcò nel letto. Il giovine, avuta questa promessa, si trovò il piú allegro e contento uomo del mondo, e a l’ora deputata andò e appresso a la madre, dispogliatosi, in letto si mise. Era la vedova assai giovane ancora, di trentuno in trentadui anni, e sentendosi il figliuolo appresso, e in lei destatosi il concupiscibile appetito, quello non come figliuolo ma come caro amante ne le braccia ricevendo, del suo corpo impiamente gli compiacque. Egli che mai piú non era con donna carnalmente giaciuto, non sapendo discerner l’esser d’una vergine da una corrotta, fece valentemente il poter suo ed impregnò la madre quella notte istessa. La quale per levar l’occasione di piú tornarvi, essendo pentita de la commessa sceleratezza, mandò il dí seguente la donzella a casa d’un suo vicino parente, trovando certe sue scuse; e poi si mise ad essortare il figliuolo che volesse andar a la corte del re Lodovico duodecimo e non perder piú tempo a casa, essendo giá in etá di poter travagliare. Fu cosa facile il persuadere al giovine l’andare in corte; il perché messo da la madre ad ordine di ciò che era bisogno, andò in corte e si mise a servir il re Lodovico. La vedova, come si sentí di certo esser gravida, si trovò la piú disperata donna del mondo, avendo prima innanzi agli occhi l’enormissimo peccato che commesso aveva, e poi non sapendo come far a partorire che non restasse svergognata. E pensando bene sovra i casi suoi, deliberò di scoprirsi ad un suo cugino che stava in un suo castello non molto lungi da lei. A costui dunque ella manifestò il tutto, pregandolo caramente che di lei a un tratto avendo pietá pigliasse cura de la vita e de l’onor di lei. Il parente, uomo da bene, considerando l’errore esser giá fatto e che rimedio non ci era a fare che fatto non fosse, si dispose a salvezza de l’onor de la parente e le disse: – Cugina mia, qual sia l’errore in che sei cascata, tu stessa lo sai. Egli è fatto ed altro rimedio non ci è se non che tu l’acconci con Dio, confessandoti del tuo peccato e facendone la penitenza che data ti sará. Al rimanente io metterò bene con l’aiuto di Dio tal rimedio che niente se ne saperá. Tu verrai a starti meco e lá partorirai. Io provederò di nutrice per la creatura che nascerá e la farò nodrire come cosa mia, e la cosa anderá di modo che nessuno risaperá i casi nostri. – Andò la donna al castello del cugino, e cosí come egli detto aveva, con effetto fece, perché, appostata al tempo del partorire una nutrice, sí ben seppe fare che egli levò il parto de la cugina senza aita di persona; ed avendo ella partorito una bellissima figliuola, come sua e d’una donna che diceva aver ingravidata, la diede ad esser allattata e nodrita e la fece battezzare. E sí bene andò la bisogna che né uomo né donna del mondo di cosa alcuna s’accorse. La vedova poi, mostrando alquanto esser stata indisposta, se ne tornò al suo castello. Fu nodrita la figliuola nasciuta e diligentemente allevata, la quale diveniva ogni dí piú bella; ed avendo circa tre anni, la donna la prese in casa, dicendo che voleva allevarla per l’amor di Dio. Cresceva la fanciulla e mirabilmente ogni dí piú bella si faceva, di modo che essendo di nove o dieci anni era tanto formosa ed aggraziata che la reina di Navarra, udita la fama de la bellezza di quella, la volle vedere e, trovatala molto piú bella che non credeva, la domandò in dono a la gentildonna ed ebbela. La fece la reina star con le sue damigelle ed insegnarle lavorar quei lavori che le damigelle fanno. La fanciulla il tutto benissimo apparò e divenuta molto grande, avendo di giá passati i quattordici anni, era tenuta la piú leggiadra e formosa damigella che in tutto il reame di Navarra fosse. Il giovine figliuolo de la vedova e padre di questa damigella era continovamente stato in corte del re Lodovico, ché mai non era venuto a casa; onde volendo venir a veder la madre e riconoscer le cose sue, con buona grazia del re se ne venne. Essendo stato otto o dieci dí con la madre, le disse una matina: – Madre mia, egli mi pare che il debito mio sia d’andar a far riverenza a madama la reina di Navarra nostra padrona. – Tu farai bene, figliuol mio, ad andarvi, – rispose la madre. – Raccomandami bene a la sua buona grazia. – Andò il gentiluomo, che giá era vicino ai trent’anni, e fece riverenza a la reina, da la quale fu graziosamente accolto. Essendo tutto il dí in corte e praticando con le damigelle, s’innamorò molto fieramente di sua figliuola e cominciò assiduamente a farle la corte e servirla. La reina, che cordialmente amava la damigella, n’aveva piacere, parendole se il gentiluomo l’avesse pigliata per moglie, che sarebbe stata bene ed onoratamente maritata. Ora la cosa andò tanto innanzi che con buona grazia de la reina il giovine senza saper altro sposò la propria figliuola e consumò seco l’atto matrimoniale, e poi a la madre ne diede avviso, come per compiacer a la reina aveva sposata la tal damigella. La povera donna, sentendo questa orribil nuova, tutta stordí e gravissimamente infermò. E conoscendosi vicina al morire, si confessò con il vescovo de la sua diocesi e a lui il fatto come stava del tutto aperse, e dolente e pentita del suo peccato se ne morí. Era giá morto il suo cugino che era del fatto consapevole. Poi che ella fu morta, il vescovo secretamente il tutto manifestò a la reina, la quale, intendendo che nessuno ci era vivo che il fatto sapesse se non il vescovo che ne l’ultima confessione de la donna inteso l’aveva, non volle che altrimenti se ne parlasse, ma che il marito e moglie, padre e figliuola, fratello e sorella, in buona fede si lasciassero, i quali forse oggidí sono ancor vivi.


Il Bandello a l’illustre e vertuoso signore


il conte Niccolò d’Arco


Eravamo questi anni passati a Pinaruolo molti in compagnia fuor de la terra a seder in un praticello pieno di verde e minutissima erbetta, per la quale in un canaletto correva una limpidissima a molto fresca fontana, la quale col suo dolce e piacevol mormorio rendeva un soave e dilettevol suono. Quivi ragionando noi di molte cose, sovravvenne la buona memoria del signor conte Guido Rangone, alora general luogotenente in Italia del re cristianissimo, che accompagnato da molti signori e capitani ed altri soldati andava d’ogn’intorno a le mura de la terra, disegnando lá un baloardo, colá una piattaforma ed altrove un bastione ed altri ripari, secondo che la diversitá del sito ricercava, perché Pinaruolo parte è in colle, parte al declivo del monte e parte in terra piana. Erano seco alcuni ingegneri con i quali conferiva il tutto, e voleva di ciascuno il parere; poi quello che pareva il piú ragionevole e piú a profitto de la sicurezza del luogo si metteva in opera, di modo che in assai breve tempo rese quella terra fortissima. Come noi il vedemmo, tutti levammo in piedi a fargli riverenza, ed egli che era umanissimo e cortese signore, ci salutò molto graziosamente e andò al suo camino. Era seco Vespasiano da Esi, strenuo e gentilissimo soldato, il quale oltra l’esser prode de la persona, aveva molte buone parti di gentiluomo, essendo cortese, costumato, uomo di giudizio e di buone lettere ornato e nemicissimo de l’ozio, perciò che sempre era o ne le cose de la milizia occupato o in compagnia a ragionar di cose vertuose, o lo trovavi con alcun libro in mano. Com’egli ci vide, rivolto a me, mi domandò se, senza impedir i nostri ragionamenti, poteva esser de la nostra brigata. Tutti gli rispondemmo che fosse il ben venuto e che era come il zucchero che vivanda non guasta giá mai. Venne e ci salutò, e da noi risalutato s’assise. E domandandone che ragionamenti erano i nostri, messer Gian Battista Rinucci, che ci narrava la novella di Lodovico fiorentino e di madonna Beatrice moglie d’Egano dei Galluzzi da Bologna, gli rispose che narrava la tal novella e, se voleva, che da capo la ricominciarebbe. – No no, – soggiunse egli, – seguitate pur ove voi il parlar vostro tralasciato avete, perché credo che molti che qui sono l’abbiano udita raccontare o letta, e per aventura ci può esser chi non la sa: a quelli forse rincrescerebbe il replicare ed a questi basterá una volta udirla. – Era quasi al fine messer Gian Battista del suo novellare, onde quella in poco d’ora finí. Si cominciò tra gli ascoltanti da alcuni a dire che gran cosa pareva loro che un gentiluomo, come era Lodovico, si fosse messo per servidore d’un altro suo pari o forse anco da meno. Altri dicevano che non era gran cosa, se si considera quanto potente sia la forza de l’amore quando egli è abbarbicato in un cor nobile a generoso. E su questo si dissero assai parole secondo la varietá de l’openioni di coloro che ragionavano sovra questa materia. E andando la disputa in luogo, Vespasiano a questo proposito ci narrò una piacevol novella, la quale essendomi molto piacciuta, come io fui a l’albergo, fu da me scritta e con l’altre mie novelle messa in un coffano. Ora avendomi fatto venir d’Italia alcuni forzieri di mie robe con quella parte de le mie composizioni cosí latine come volgari, in verso e in prosa, che mi rimasero quando gli spagnuoli in Milano la mia stanza svaligiarono, e che ogni cosa andò a sacco, e queste da un amico mio furono salvate, deliberai riveder quelle novelle che ci erano. Cosí venutami a le mani quella che Vespasiano alora narrò, feci pensiero che al nome vostro fosse intitolata, il che alora misi in essecuzione, ponendole il nome vostro ne la fronte come a tutte l’altre faccio. Per lettere poi de la signora Auriga Gambara giá moglie de l’illustre signor Pietro Fregoso di Novi, ho veduto che voi vi sète meravigliato che io non v’abbia mandato uno dei miei libri composto in stanze a lode de la valorosa eroina la signora Lucrezia Gonzaga di Gazzuolo; cosa che in vero m’ha fatto molto piú meravigliare e doler che voi. Io, signor mio, giá circa dui anni, per via del cancelliero d’essa signora Auriga ne mandai in Italia trenta d’essi libri, tra i quali uno era per voi, notato col nome vostro nel principio del libro, e a quello ch’io veggio egli è ito in Persia, come alcuni altri. Onde mio cugino messer Giacomo Francesco Bandello, al quale in Mantova ne indirizzai alcuni, mi scrisse non gli aver avuti tutti e che gli altri erano la metá guasti. Ma io ve ne manderò uno con la prima comoditá che mi venga. Tuttavia io vi ringrazio infinitamente de la memoria che di me tenete, ché nel vero, a parlarvi di core, io averei giurato che piú di me non fosse ricordanza appo voi, essendo quasi un’etá che non mi vedeste. Nondimeno io sempre v’ho avuto in memoria, ed ove m’è accaduto parlar degli elevati ingegni italiani de la nostra etá, io v’ho di continovo annoverato tra i primi. E in fede di quanto diceva, ho mostrato a molti la elegia, in alcuni luoghi di man vostra emendata, che ancor fanciullo ne la consacrazione de la vostra lanuggine a Venere componeste in Pavia. Ho anco fatto veder la «selva», che per la morte del nostro vertuosissimo messer Marc’Antonio Torre, con l’epitaffio, decantaste, o lagrimaste piú tosto. Taccio altre «selve», endecasillabi, giambici ed epigrammi che appo me sono, con quello dell’«r» del Quinziano. Le quali cose mostrano l’altezza ed il candore del vostro ingegno; onde mosso dal testimonio mio, il signor Giulio Scaligero nei suoi Eroi v’ha dato onorevol luogo, come ad instanzia mia ha fatto ad alcuni altri, e ne le Eroine ad alcune gentilissime donne, e questo suo libro insieme col mio vi manderò. Ma tempo è che noi ascoltiamo Vespasiano. Questa adunque mia novella accetterete con quella generositá di core che quando eravamo a Pavia la creanza vostra dimostrava. E tenendomi nel numero dei vostri, mi vi raccomando e prego Dio che voglia darvi quanto desiderate. State sano.