Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella VIII

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Novella VIII - Giulia da Gazuolo, essendo per forza violata, in Oglio si getta, ove muore
Parte I - Novella VII Parte I - Novella IX

[p. 99 modifica]Crasso e l’altro fratello, suoi carnali nipoti, che contra lui s’erano con grande essercito armati, per levargli l’imperio romano e per seguir la guerra che il padre loro aveva di già cominciata. Onde fece pace con Baldoino e di forestario lo creò conte di Fiandra, investendolo con i suoi discendenti ed assegnandogli la Fiandra per dote di madama Giudit sua figliuola. Per questo Baldoino fece metter insieme molti fiamenghi e gli mandò con il suocero. Il quale, passate l’Alpi, venne in Italia, e su la campagna di Verona fu dai nipoti a battaglia campale vinto, e ne la città nostra di Mantova si ridusse, ove di doglia de la perduta giornata acquistò una grave infermità. Aveva Carlo un medico ebreo, chiamato Sedechia, che seco sempre conduceva, il quale, per danaro corrotto dai nipoti d’esso Carlo, quello in una medicina avvelenò. Onde egli se ne morì. Baldoino udita la morte del suocero, seppe sì bene con Lodovico Balbo suo cognato, che nel regno de la Francia al padre successe, governarsi, che restò de la Fiandra pacifico possessore, e con la sua amata Giudit allegramente lungo tempo visse e di lei ebbe molti figliuoli, la cui genealogia per molti e molti anni è durata. Fu di questa stirpe un altro Baldoino conte di Fiandra, il quale per i buoni costumi e vertù militare, essendo eccellentissimo uomo ne la milizia, negli anni de la nostra salute MCCII fu per elezione di molti prencipi cristiani creato imperadore di Costantinopoli. Cotale adunque fine ebbe l’amor di Baldoino e di Giudit. Chè se forse non era mosso guerra a Carlo sortiva un altro fine; nè perchè l’audacia e temerità sua gli succedesse bene, si deve dedurre in essempio ed arrischiarsi l’uomo a far simili oltraggi al suo signore.


Il Bandello a l’illustrissimo e reverendissimo signore monsignor Pirro Gonzaga cardinale


Se ai tempi nostri, signor mio osservandissimo, s’usasse quella cura e diligenza che appo i romani ed i greci fu lungo tempo usata in scriver tutte le cose che di memoria occorrevano, io porto ferma openione che l’età nostra non sarebbe meno da esser lodata di quelle antiche, le quali tanto gli scrittori lodano e commendano. Chè se vorremo per la pittura e scultura discorrere, [p. 100 modifica]se i nostri pittori e scultori non sono da esser a quei tanto celebrati preposti, gli resteranno almeno uguali. Le buone lettere a’ nostri dì non credo io che punto agli antichi oratori, ai poeti, ai filosofi ed agli altri scrittori così latini come greci debbiano cedere, che a par di loro non possano vedersi. La milizia quando mai fu in maggior pregio che si sia ora? Certamente, se Alessandro il Magno, Pirro, Annibale e Filopemene, Q. Fabio Massimo, i folgori di battaglia Scipioni, Marcello, il magno Pompeio e Cesare, con tanti altri famosi eroi, fossero vivi e vedessero il modo del guerreggiar d’oggidì e ciò che si fa col solfo, salnitro e carbone, resterebbero smarriti e a molti dei nostri capitani cederebbero e vederiano ne’ soldati privati tanto animo, tanta industria e tanto valore quanto nei loro vedessero già mai. Ma il male è che ai nostri tempi non v’è chi si diletti di scriver ciò che a la giornata avviene; onde perdiamo molti belli ed acuti detti, e molti generosi e memorandi fatti restano sepolti nel fondo de l’oscura oblivione. E pure tutto il dì avvengono bellissime cose, che sono degne d’esser a la memoria de la posterità consacrate. Onde per ora ne scieglierò una avvenuta questi anni passati a Gazuolo. Questa istorietta, essendo io venuto a far riverenza al mio valoroso signor Pirro Gonzaga vostro zio, e ragionandosi dei varii casi che avvengano, comandò esso signor Pirro al mio compar da bene messer Gian Matteo Olivo, mezzo cantore, che narrasse. Vi eravate ancor voi presente quando il mio compar la narrò, e diceste che se a’ tempi antichi fosse accaduta, che non meno Giulia da Gazuolo celebrata e cantata si vederebbe di quanto che sia la tanto famosa Lucrezia romana; se non che Giulia fu di troppo basso sangue. Ora mettendo insieme le mie novelle, questa che alora scrissi ho voluto che del vostro signorile e vertuoso nome armata fra l’altre si veggia, a ciò conosciate che io di voi son ricordevole. E come potrei io fare altrimenti, avendomi voi sempre amato e più che a me non si conveniva riverito? Ma io desidero che mi si presti altra occasione che d’una novella a farvi nota la gratitudine de l’animo mio verso di voi, e la sincerità de la mia servitù che a voi e a tutta l’illustrissima casa vostra porto, per i molti piaceri ed onori ricevuti e che tutto il dì ricevo. State sano.

NOVELLA VIII
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Giulia da Gazuolo, essendo per forza violata, in Oglio si getta, ove morì.


Vuole il nostro signor Pirro marchese di Gonzaga e signor di Gazuolo, che qui sovra la riva de l’Oglio vedete posto a la banda di verso il Po, il quale è stato per lunga successione dei signori gonzagheschi, che io, signor umanissimo e voi cortesi signori, narri il memorabil accidente de la morte d’una Giulia di questa terra, che non è molto avvenne. Poteva esso illustrissimo signore molto meglio di me il successo de la cosa dire. Vi sono anco molti altri che averebbero in questa materia sì bene come io sodisfatto e il tutto puntalmente narrato. Ma poi che egli mi comanda che io sia il narratore, io voglio e debbo ubidirlo. Ben mi rincresce ch’io non sia atto a commendare il generoso e virile spirito di Giulia come il singolar atto da lei fatto merita. Devete adunque sapere che, mentre il liberale e savio prencipe, l’illustrissimo e reverendissimo monsignor Lodovico Gonzaga, vescovo di Mantova, qui in Gazuolo abitava, che egli sempre vi tenne una corte onoratissima di molti e vertuosi gentiluomini, come colui che si dilettava de le vertù e molto largamente spendeva. In quei dì fu una giovane d’età di dicesette anni chiamata Giulia, figliuola d’un poverissimo uomo di questa terra, di nazione umilissima, che altro non aveva che con le braccia tutto il dì lavorando ed affaticandosi guadagnar il vivere per sè, per la moglie e due figliuole, senza più. La moglie anco, che era buona femina, s’affaticava in guadagnar qualche cosa filando ed altri simili servigi donneschi facendo. Questa Giulia era molto bella e di leggiadri costumi dotata, e molto più leggiadra che a sì basso sangue non conveniva. Ella ora con la madre ed ora con altre donne andava in campagna a zappare e far altri essercizii, secondo che bisognava. Sovviemmi che un giorno, essendo io con l’eccellentissima madama Antonia Bauzia madre di questi nostri illustrissimi signori, e andando a san Bartolomeo, che incontrammo la detta Giulia, la quale con un canestro in capo a casa se ne ritornava tutta sola. Madama, veggendo così bella figliuola che poteva avere circa quindeci anni, fatto fermar la carretta, le domandò di chi fosse figliuola. Ella riverentemente rispose e disse il nome del padre, e molto al proposito a le domande di madama sodisfece, che pareva che non in un tugurio e casa di paglia fosse nata e allevata, [p. 102 modifica]ma che tutto il tempo de la sua età fosse stata nodrita in corte, di modo che madama mi disse volerla pigliar in casa ed allevarla con l’altre donzelle. Perchè poi si rimanesse, io non vi saperei già dire. Ritornando dunque a Giulia, vi dico che ella tutti i giorni che si lavorava non perdeva mai tempo, ma o sola od in compagnia sempre travagliava. Le feste poi, come è la costuma del paese, ella dopo il desinare andava con l’altre giovanette ai balli e davasi onestamente piacere. Avvenne un dì che, essendo ella in età di circa dicesette anni, che un camerier del detto monsignor vescovo, che era ferrarese, le gettò l’ingorda vista a dosso veggendola ballare, e parendogli pure la più vaga e bella giovanetta che veduta di gran tempo avesse, e tale che, come s’è detto, pareva ne le più civili case nodrita, di lei sì stranamente s’innamorò, che ad altro il suo pensiero rivolger non poteva. Finito il ballo, che era parso lunghissimo al cameriero, e cominciandosi a sonare un’altra danza, egli la richiese di ballare e ballò seco un ballo a la gagliarda, perciò che ella a la gagliarda danzava molto bene e tanto a tempo, che era un grandissimo spasso a mirarla come aggraziatamente si moveva. Ritornò il cameriero a danzar seco, e se non fosse stato per vergogna, egli ogni danza l’averebbe presa, parendogli quando la teneva per la mano che sentisse il maggior piacer che sentito avesse già mai. E ancor che ella tutto il dì lavorasse, nondimeno ella aveva una man bianca, lunghetta e morbida molto. Il misero amante così subitamente di lei e de le sue belle maniere acceso, mentre che credeva mirandola ammorzar le novelle nascenti fiamme che già miseramente lo struggevano, non se ne accorgendo a poco a poco le faceva maggiori, accrescendo con gli sguardi la stipa al fuoco. Ne la seconda e terza danza che seco fece, assai motti e parolucce il giovine le disse come far sogliono i novelli amanti. Ella sempre saggiamente gli diede risposta dicendo che non le parlasse d’amore, perciò che a povera giovane come ella era non stava bene mai a dar orecchie a simil favole, nè altro mai l’importuno ferrarese cavare ne puotè. Finito il ballare, il ferrarese le andò dietro per imparar ove ella aveva la stanza. Ebbe poi più volte e in Gazuolo e fuori comodità di parlar con Giulia e di scoprirle il suo ferventissimo amore, sforzandosi pur sempre di farla de le sue parole capace e riscaldarle il freddissimo petto. Ma per cosa ch’egli le dicesse già mai ella punto non si mosse dal suo casto proponimento, anzi caldamente lo pregava che la lasciasse stare e non le desse noia. Ma il meschino amante a cui [p. 103 modifica]l’amoroso verme fieramente rodeva il core, quanto più ella dura e ritrosa si mostrava, tanto più egli s’accendeva, tanto più la seguitava e tanto più s’affaticava di renderla pieghevole a’ suoi appetiti, ben che il tutto era indarno. Fecele da una vecchia, che pareva santa Cita, parlare, la quale fece l’ufficio suo molto diligentemente, sforzandosi con sue lusinghevoli ciance corromper l’indurato affetto de la casta Giulia. Ma la giovanetta era così ben fondata, che mai parola che la ribalda vecchia le dicesse non le puotè nel petto entrare. Il che intendendo il ferrarese, si trovava il più disperato uomo del mondo, non si potendo imaginare di lasciar costei, con speme pure che pregando, servendo, amando e perseverando, devesse la fiera durezza di Giulia render molle, parendogli impossibile che a lungo andare egli non la devesse ottenere. Egli, come proverbialmente si dice, faceva il conto senza l’oste. Ora veggendo che di giorno in giorno ella più si mostrava ritrosa e che quando lo vedeva lo fuggiva come un basilisco, volle provare se ciò che le parole e la servitù non avevano potuto fare, lo farebbero i doni, riserbandosi la forza da sezzo. Tornò a parlare a la scelerata vecchia e le diede alcune cosette non di molta valuta, che portasse da parte sua a Giulia. Andò la vecchia e ritrovò che Giulia tutta sola era in casa; e volendo cominciar a parlar del ferrarese, le mostrò i doni che egli le mandava. Ma l’onesta figliuola, tolte quelle cosette che la vecchia recate aveva, tutte le gettò fuori de l’uscio su la via publica, e la traditora vecchia cacciò di casa, dicendole se più le tornava a far motto ch’ella anderebbe in Rocca a dirlo a madama Antonia. La vecchia, prese le cose che su la strada erano, se ne tornò a parlar al ferrarese e a dirgli che impossibil era piegar la fanciulla, e che ella non saperebbe più in questo caso che farle. Il giovine si trovava tanto di mala voglia quanto dir si possa. Egli volentieri si sarebbe da l’impresa ritirato; ma, come egli pensava di lasciarla, il misero si sentiva morire. A la fine non potendo il povero e cieco amante più sofferire di vedersi sì poco gradire, deliberò, avvenissene ciò che si volesse, se la comodità bella si vedeva, quello per viva forza da lei prendere che ella di grado dar non gli voleva. Era in corte uno staffiero di monsignor vescovo molto amico del ferrarese, e, se ben mi ricordo, egli anco era da Ferrara. A costui il cameriero scoperse tutto il suo ferventissimo amore, e quanto s’era affaticato per imprimere nel petto de la fanciulla un poco di compassione, ma che ella sempre s’era dimostrata più dura e più rigida che un marino [p. 104 modifica]scoglio, e che mai non l’aveva potuta nè con parole nè con doni piegare. – Ora diceva egli – veggendo io che viver non posso se i desir miei non contento, sapendo quanto tu m’ami, ti prego che tu voglia esser meco ed aiutarmi a conseguir quanto io desio. Ella va spesso sola in campagna, ove, essendo le biade già assai alte, poteremo far l’intento nostro. – Lo staffiero, senza pensar più oltre, li promise che sempre sarebbe seco a far tutto quello che egli volesse. Il perchè il cameriero, spiando di continuo ciò che ella faceva, intese un dì che ella tutta sola usciva di Gazuolo. Onde, chiamato lo staffiero, là se n’andò ove ella faceva non so che in certo campo. Quivi giunto, cominciò come era consueto a pregarla che omai volesse di lui aver pietate. Ella, veggendosi sola, pregò il giovine che non le desse più fastidio, e dubitando di qualche male se ne venne verso Gazuolo. Il giovine, non volendo che la preda gli uscisse di mano, finse col compagno di volerle far compagnia, tuttavia con umili ed amorevoli parole affettuosamente pregandola che avesse de le sue pene pietà. Ella, messasi la via fra’ piedi, frettolosamente verso casa se n’andava. E caminando senza dar risposta a cosa che il giovine dicesse, pervennero ad un gran campo di grano che bisognava attraversare. Era il penultimo giorno di maggio e poteva quasi esser mezzo dì, e il sole era secondo la stagione forte caldo, e il campo assai rimoto da ogni abitazione. Come furono nel campo entrati, il giovine, poste le braccia al collo a Giulia, la volle basciare; ma ella, volendo fuggire e gridando aita, fu da lo staffiero presa e gettata in terra, il quale subito le mise in bocca uno sbadaglio a ciò non potesse gridare, e tutti dui la levarono di peso e per viva forza la portarono un pezzo lungi dal sentiero che il campo attraversava; e quivi, tenendole le mani lo staffiero, lo sfrenato giovine lei, che sbadagliata era e non poteva far contesa, sverginò. La miserella amaramente piangeva e con gemiti e singhiozzi la sua inestimabil pena manifestava. Il crudel cameriero un’altra volta, a mal grado di lei, amorosamente seco si giacque, prendendone tutto quel diletto che volle. Dapoi la fece disbadagliare, e cominciò con molte amorevoli parole a volerla rappacificare, promettendole che mai non l’abbandonaria e che l’aiuteria a maritare, di modo che starebbe bene. Ella altro non diceva, se non che la liberassero e la lasciassero andar a casa, tuttavia amaramente piangendo. Tentò di nuovo il giovine con dolci parole, con larghe promesse e con volerle alora dar danari, di rachetarla. Ma il tutto era cantare a’ sordi, e quanto [p. 105 modifica]più egli si sforzava consolarla ella più dirottamente piangeva. E veggendo pur che egli in parole multiplicava, gli disse: – Giovine, tu hai di me fatto ogni tua voglia e il tuo disonesto appetito saziato; io ti prego, di grazia, che omai tu mi liberi e mi lasci andare. Ti basti quanto hai fatto, che pur è stato troppo. – L’amante, dubitando che per dirotto pianto che Giulia faceva non fosse discoperto, poi che vide che indarno s’affaticava, deliberò di lasciarla e di partirsi col suo compagno; e così fece. Giulia, dopo l’aver amaramente buona pezza pianto la violata verginità, racconciatasi in capo i suoi disciolti pannicelli e a la meglio che puotè rasciugatosi gli occhi, se ne venne tosto a Gazuolo e a casa sua se n’andò. Quivi non era nè il padre nè la madre di lei; v’era solamente in quel punto una sua sorella d’età di dieci in undeci anni, che per esser alquanto inferma non era potuta andar fuori. Giunta che fu Giulia in casa, ella aperse un suo forsiero, ove teneva le sue cosette. Dapoi, dispogliatasi tutti quei vestimenti che indosso aveva, prese una camicia di bucato e se la mise. Poi si vestì il suo valescio di boccaccino bianco come neve ed una gorgiera di velo candido lavorato, con uno grembiale di vel bianco, che ella solamente soleva portar le feste. Così anco si messe un paio di calzette di saia bianca e di scarpette rosse. Conciossi poi la testa più vagamente che puotè, ed al collo si avvolse una filza d’ambre gialle. Insomma ella s’adornò con le più belle cosette che si ritrovò avere, come se fosse voluta ire a far la mostra su la più solenne festa di Gazuolo. Dapoi domandò la sorella e le donò tutte l’altre sue cose che aveva, e quella presa per mano e serrato l’uscio de la casa, andò in casa d’una lor vicina, donna molto attempata, che era gravemente nel letto inferma. A questa buona donna lagrimando tuttavia, narrò Giulia tutto il successo de la sua disgrazia e sì le disse: – Non voglia Iddio che io stia in vita, poi che perduto ho l’onore che di stare in vita m’era cagione. Già mai non avverrà che persona mi mostri a dito o sugli occhi mi dica: – Ecco gentil fanciulla ch’è diventata puttana e la sua famiglia ha svergognato, che se avesse intelletto si deveria nascondere. – Non vo’ che a nessuno dei miei mai rinfacciato sia, che io volontariamente abbia al cameriero compiaciuto. Il fine mio farà a tutto il mondo manifesto e darà certissima fede che, se il corpo mi fu per forza violato, che sempre l’animo mi restò libero. Queste poche parole v’ho voluto dire a ciò che ai dui miei miseri parenti possiate il tutto riferire, assicurandoli che in me mai non fu consentimento di compiacere al [p. 106 modifica]disonesto appetito del cameriero. Rimanetevi in pace. – Detto questo, ella uscì fuori e andava di lungo verso Oglio, e la sua picciola sorella dietro la seguiva piangendo, nè sapendo di che. Come Giulia arrivò al fiume, così col capo avanti nel profondo de l’Oglio si lanciò. Quivi al pianto de la sorella che gli stridi mandava sino al cielo, corsero molti, ma tardi, perciò che Giulia, che volontariamente dentro il fiume s’era gettata per annegarsi, in un tratto se stessa abbandonando vi s’affogò. Il signor vescovo e madama, udito il miserabil accidente, la fecero pescare. In questo il cameriero, chiamato a sè lo staffiero, se ne fuggì. Fu il corpo ritrovato, e divolgatasi la cagione per che s’era affogata, fu con universal pianto di tutte le donne ed anco degli uomini del paese con molte lagrime onorata. L’illustrissimo e reverendissimo signor vescovo la fece su la piazza, non si potendo in sacrato seppellire, in un deposito mettere che ancora v’è, deliberando seppellirla in un sepolcro di bronzo e quello far porre su quella colonna di marmo ch’in piazza ancor veder si puote. E in vero per mio giudicio, quale egli si sia, questa nostra Giulia non minor lode merita che meriti Lucrezia romana; e forse, se il tutto ben si considera, ella deve esser preposta a la romana. Solo si può la natura accusare, che a sì magnanimo e generoso spirito come Giulia ebbe, non diede nascimento più nobile. Ma assai nobile è tenuto chi è de la vertù amico e chi l’onore a tutte le cose del mondo prepone.


Il Bandello al magnifico messer Lancino Curzio filosofo e poeta


Non credo che di mente vi sia uscito il dilettevol contrasto che ai giorni passati così allegramente avemmo, essendo in casa del nostro vertuosissimo ed integerrimo, dal mondo riverito e da noi amato, il signor Giacomo Antiquario, protonotario apostolico, perciò che la materia era tale che di leggero non ve la sarete scordata. Noi questionammo onde avviene che tutto il dì si veggiono molte saggie donne, quando più sono tenute avvedute e prudenti, commetter grandissimi errori, per i quali in un tratto perdeno il buon nome che avevano. Si vede oggi,