Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella LVII

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Novella LVII - Uno si giace con la propria moglie, non conosciuto da lei, ed insegna altrui a far il medesimo assai scioccamente
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[p. 331 modifica]per comandamento del re, condotte subito a Castello Gagliardo d’Andelì, ove, lungo tempo de la prigionia e dal duro vivere e altri disagi che soffrivano, si morirono in miseria grandissima, e senza onore alcuno di sepoltura furono poveramente interrate. In quel medesimo tempo che l’adulterio de le due dame si scoperse, a ciò che parte nessuna de la casa reale non restasse senza biasimo, fu Giovanna di Borgogna, moglie di Filippo Lungo, anco ella accusata d’adulterio e nel castello Dourdan imprigionata; ma essendo innocente, fu giuridicamente dal parlamento di Parigi assoluta e giudicata donna onesta e d’onore. I dui altri adulteri, Gualtieri e Filippo di Dannoi, formato il processo loro dai signori de la corte del parlamento parigino, avendo senza tormento alcuno l’adulterio confessato, furono per finale sentenzia condannati che publicamente fussero loro i membri genitali tagliati via e le persone loro da capo a piedi scorticate, di modo che tutta la pelle se gli levasse: il che dal manigoldo fu subito publicamente, con grandissimo dolore dei dui giovini, essequito. Furono poi vituperosamente condutti ad una forca e quivi per la gola impiccati. L’usciero medesimamente che agli adulteri teneva mano fu anco egli impiccato. Morta che fu in carcere Margarita, Luigi Utino prese ne le seconde nozze Clemenza, figliuola di Carlo Martello, primogenito di Carlo secondo re di Sicilia. Medesimamente Carlo, morendo Bianca, sposò per sua moglie Maria, figliuola di Giovanni di Lucemborgo, figliuolo d’Enrico imperadore.


Il Bandello a l’illustre signor Enea Pio da Carpi


Sì come tutto il dì veggiamo per prova avvenire che tutti quei fanciulli, che sono dai parenti loro mandati a le scole per imparare grammatica, non riescono tutti buoni grammatici, anzi il più di loro restano ignoranti e a pena sanno talora legger una lettera che loro sia da alcuno amico scritta, e meno sanno riscrivere e sottoscrivere il nome proprio e bisogna che ad altrui facciano scrivere; così anco avviene di quei giovini che a Pavia, a Padova, a Bologna od altrove vanno per farsi filosofi o de la ragione civile o pontificia o di medicina dottori. Chè se tutti, che negli Studii [p. 332 modifica]generali se ne stanno e vanno ad udire ogni giorno due e tre lezioni, facessero profitto e divenissero dottori, diverrebbero, come si dice, più gli sparvieri che le quaglie, cioè che più sarebbero i dottori che i clientoli. Ma pochi son coloro che riescono dotti, come anco negli altri essercizii avviene, dove se in una città o castello si trovano dui o tre eccellenti in un mestiero è bene assai. Ora tra gli altri mestieri, a me pare che ne l’arte de la cortegiania infiniti si mettano, ma che molti pochi come ella deve esser essercitata l’apparino, perciò che ne le corti di varii prencipi, così in Italia come fuori, si trovano uomini pur assai che professione fanno d’esser cortegiani, e chi loro con diligenza essaminasse, si vederebbe che ancora non sanno ciò che importi questo nome di «cortegiano». Bene si spera che il nostro signor conte Baldessar Castiglione farà conoscer l’errore di questi magri cortegiani come faccia imprimer l’opera sua del Cortegiano. E di questo ragionandosi, non è molto, qui in Milano in casa de la gentilissima signora vostra sorella, la signora Margarita Pia e Sanseverina, vi si ritrovò il costumatissimo e splendidissimo cavaliero messer Angelo da Santo Angelo, che a caso era da Crema venuto per certi suoi affari. Era la signora Margarita a stretto ragionamento con l’eccellente iureconsulto messer Benedetto Tonso ed altri avvocati consultando sovra i meriti d’una lite, quando d’alcuni inetti cortegiani si favellava; onde messer Angelo a questo proposito narrò una ridicola e piacevole novella a molti gentiluomini che presenti erano, che fece insiememente e ridere e meravigliare chi l’udì. Il perchè avendovi io sempre trovato gentile e pratico cortegiano, avendo voi i meglior anni vostri consumati in corte, m’è paruto, avendola scritta, di farvene un dono, non perchè ella sia degna cosa per voi, ma perchè leggendola veggiate quanta sia talora la melensaggine e trascuratezza di molti che si pensano d’esser Salomoni. State sano.

Uno si giace con la propria moglie non conosciuto da lei ed insegna altrui a far il medesimo assai scioccamente.


Il ragionamento, signori miei, che ora voi fate, mi fa sovvenire d’un cortegiano, cioè d’uomo che stava in corte e forse ancora vi sta, che in una pazzia che fece dimostrò assai leggermente che quando il suo parrocchiano gli diede il santo battesimo gli pose molto poco sale in bocca. Nè so io come sia possibile che si truovi alcuno che ne le corti pratichi, che in tutto [p. 333 modifica]venda il pesce e gli resti sì vòta la zucca, come volgarmente si dice, che niente di cervello gli resti in capo. Il che nel vero avvenne a questo mio magro e scemonnito cortegiano, di cui io ora intendo favellarvi. Chè forse quando la nostra signora Margarita fosse qui in sala, io non so ciò che mi facessi, perciò che per riverenza di lei penso che lascerei da parte la novella di costui, ancor che non si disdica d’udir le cose che a la giornata, od oneste o disoneste che siano, occorrono: anzi porto io ferma openione che assai di giovamento rechino l’azioni umane quando s’intendono, imparando ciascuno da quelle, se buone sono,' 'a seguir il bene, se male e disoneste, ad astenersi da quelle. Saper il male non è male, ma farlo è quello che condanna chi lo fa, secondo che sapere il bene e non metterlo in essecuzione non fa perciò l’uomo buono, ma l’operazioni buone e vertuose rendono l’uomo riguardevole e da bene. Chè io per me, – e giovami credere che molti di cotal animo siano, – ogni volta che intendo un gentiluomo far cosa meno che degna de la sua nobiltà e che gliene veggio seguir infamia e biasimo, mi confermo nel viver politico e civile, come desideroso di schifare ogni biasimo, e mi innanimo a caminar per la strada de le vertù, la quale sento tutto il dì dagli scrittori esser commendata e dagli uomini integri e di buoni costumi ornati veggio seguirsi. Ma venendo oggimai a la nostra novelletta, vi dico che in una corte molto onorata era un gentiluomo di nobile famiglia e dei beni de la fortuna copiosamente dotato, il quale ancora che assai tempo avesse in corte praticato e che si reputasse esser molto avveduto ed accorto, era nondimeno di natura de’ navoni e rape, che quanto più si stanno in terra tanto più s’ingrossano. Egli era tondo come una balla, ed ogni dì de le sue sciocchezze dava da ridere a la brigata. Aveva costui per moglie una giovane più tosto bella che altrimenti, ma per altro piacevole e festevole molto, la quale, sentendo le pappolate che il marito diceva, e conoscendo la poca levatura di quello, più e più volte seco se ne rammaricò; ma il tutto era indarno, non si volendo egli riconoscere e meno emendarsi, del che la buona donna se ne viveva in pessima contentezza. Ora, o che il marito la notte fosse così da poco con la moglie come era il giorno con i compagni, o che pure a la donna piacesse il giambo, è openione d’alcuni che essendo da molti buon compagni vagheggiata, praticando alcuni domesticamente in casa col marito, ella, come pietosa, nessuno ne facesse morir disperato, avendo di tutti compassione; di maniera che assai chiara fama era per la città che ella abondevolmente provvedesse [p. 334 modifica]di lavoratori e zappatori a la sua vigna. E perchè il marito non era da tanto che i fatti suoi e de la moglie vedesse nè sapesse dargli rimedio, ella, che si vedeva il campo libero a’ suoi piaceri, attendeva a darsi il più bel tempo del mondo, non osservando mai nè vigilie nè quattro tempora nè quadragesima nè festa; ma tutto il dì faceva inacquare il suo giardino. Era il tempo de la state e i caldi facevano grandissimi; il perchè la moglie del cortegiano se ne stava la sera fin passate le due ore in un cortile molto fresco per iscontro la porta de la casa. Il marito una sera trovandosi tutto solo senza servidori, essendo stato a diporto per la città, se ne venne verso casa. Era la notte già molto oscura, e la moglie ancora dimorava a basso a godersi il fresco del cortile. Entrò il marito in casa e pian piano andando e conoscendo la moglie esser quivi, sovrapreso da uno strano capriccio, senza far motto se le accostò, e, postole le mani a dosso, lei, che punto non fece resistenza, appoggiò al muro, ed alzandole i panni cacciò il diavolo in inferno, e senza lasciarsi conoscere, giocando a la mutola, due volte inacquò il suo terreno. Si partì poi per far ben l’avvisto ed accorto, e, data una volta per la strada, a casa se ne ritornò, trovando ancor la moglie ove senza staffe cavalcata l’aveva. La quale, per mio giudicio, deveva esser avvezza a quell’ore senza lanterna andar per lo piovoso e forse anco per l’asciutto. Come il marito giunse nel cortile, tutto allegro diede la buona notte a la moglie, e fattosi recar da bere andarono a riposare. Pareva al buon uomo d’aver fatta la più bella cosa del mondo, e tra se stesso se ne gloriava, non dormendo tutta la notte d’allegrezza, e parevagli un’ora mill’anni che venisse il giorno per narrar in corte questa sua gloriosa impresa. Onde, come fu la matina in corte, subito disse quanto la sera fatto aveva. E venuta la cosa a l’orecchie del prencipe, egli la volle da lui udire, parendogli pur troppo di strano che colui fosse così sciocco' 'che queste pazzie narrasse. Ma l’accorto cortegiano si tenne per ben avventuroso quando seppe che il suo signore voleva la cosa intendere; onde così lietamente la narrò, come averebbe fatto un eccellente capitano che l’oste del nemico avesse a battaglia campale gloriosamente vinto. Sentendo il signore la cosa, e conoscendo la poca levatura del suo cortegiano, disse: – Veramente, amico, tu hai fatto una bella impresa ed hai aperto gli occhi a molti, che le tue pedate seguiteranno. – Rise lo scemonnito e non intese: chè molti, sentendo la novella, si misero in prova di far ciò che egli fatto aveva; il che successe [p. 335 modifica]loro. Ma sono alcuni che dicono che la donna conobbe molto bene il marito, e molto si meravigliò de la sua poca considerazione, e conobbe meglio che prima la dapocaggine di quello. Or ecco che la signora Margarita esce di camera, ed io vado a farle la debita riverenza.


Il Bandello al reverendo e dotto messer Stefano Dolcino


Ebbi dal servidor vostro, essendo in casa di monsignor lo protonotario da la Torre, i vostri numerosi e dotti endecasillabi, cantati da voi de la beltà, amenità e bellissimo sito del famoso lago di Garda, chiamato dagli scrittori Benaco. Io, essendo a casa ritornato, tutti prima che di mano m’uscissero gli lessi, e, come si suol dire, in una volta d’occhi tutti più tosto furono da me inghiottiti che masticati, e nondimeno molto mi piacquero. Poi con più agio ripigliatogli, cominciai a leggergli e di passo in passo, a la meglio ch’io sapeva, a gustargli. Dio buono, quanto mi sodisfecero, quanto mi dilettarono! Ma a chi non piacerebbero eglino, essendo dolci, rotondi, soavi e numerosi? Non è persona che abbia lustrati quei luoghi e navigato il lago, che leggendo il vostro ingegnoso poema non si creda d’esser in quelle contrade a diporto, così al pescare come a tender le reti e lacci e il vischio ai semplici augelli. Che dirò poi di quel divino e veramente poetico epigramma, che voi essendo ne l’Andina villa che oggi Pietole si chiama, patria del nostro gran poeta Vergilio, su le rive del lago che circonda ed abbraccia Mantova, sì felicemente componeste? Perchè non ho io quella vostra incessabile, candida, latina e sì dolce vena che sì facile e dotta in voi scaturisce, a ciò che di voi tanto cantar potessi quanto meritate? Felice voi che volete e potete quanto v’aggrada comporre cose ottime, che dopo la morte vi terranno chiaro e famoso in vita e vi diffenderanno, fin che il mondo duri, da la edacità e pungenti morsi del vorace tempo! Voi se in prosa scrivete, si vede in quella lo spirito del padre de l’eloquenza romana Cicerone, sì bene lo imitate e rappresentate. Ma se col canto e certa legge di numeri i vostri mirabili concetti cantate, Febo con voi di