Omero minore/Batracomiomachia

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Batracomiomachia

Inni omerici/Inni minori ../La fornace IncludiIntestazione 2 marzo 2016 100% Poemi

Omero - Omero minore (Antichità)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1914)
Batracomiomachia
Inni minori La fornace

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BATRACOMIOMACHIA

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Anche la Batracomiomachia va sotto il nome d’Omero. D’Omero la credettero Stazio, Marziale, Fulgenzio, e, parrebbe, Filostrato e Teone il sofista, e Archelao di Priene, l’autore del famoso bassorilievo trovato a Boville, che rappresenta l’apoteosi d’Omero, e in cui sullo sgabello dove il poeta posa i piedi, vediamo rappresentati un topo e una rana.

Ma che l’attribuzione sia falsa, lo dimostrano parecchi indizi che si raccolgono dallo stesso testo.

Infatti, le Muse si fanno venire dall’Elicona, mentre Omero non mostra di conoscere questa loro provenienza. Si parla, sembra, di papiro1, e il papiro fu conosciuto in Grecia assai tardi. Il gallo vi fa risuonare il suo chicchirichí, e il gallo fu conosciuto in Grecia solamente ai tempi di Teognide. Vi si parla di manicaretti imbanditi con sapiente arte culinaria, e quest’arte era perfettamente ignota, parrebbe, al vate Omero ed ai suoi eroi, che si contentavano del semplice arrosto; i poeti comici se ne fanno anzi beffe, massime perché, stando cosí vicini al mare, non ebbero l’alzata d’ingegno di cucinare i pesci. [p. 169 modifica]E al medesimo risultato ci conduce l’analisi della lingua e della metrica; non c’è proprio dubbio: la Batracomiomachia non è d’Omero.

E di chi sarà allora?

Anche qui la risposta non è né concorde né sicura. Plutarco e Suida la attribuiscono a Pigres d’Alicarnasso, autore di altri scherzi poetici, e fratello di Artemisía, regina di Caria, che si coprí di gloria a Salamina, per la sua saggezza e il suo coraggio.

Altri, invece, la credono anche piú recente, dei tempi alessandrini.

Però, ad Alessandro Magno si attribuiva un motto che, se fosse autentico, escluderebbe una data così bassa. «Pare — avrebbe detto il gran condottiere — che mentre noi qui vincevamo Dario, altrove fosse impegnata una miomachia».

L’allusione al poemetto omerico parrebbe evidente; e, dunque, il poemetto sarebbe per lo meno anteriore ad Alessandro.

È cosa ovvia, e fu rilevata, questa sí, con piena concordia, che nella Batracomiomachia non esiste affatto spirito satirico.

Non ha dunque alcuna attinenza né con Archiloco, né con Ipponatte, né con la commedia. È un semplice scherzo, appartiene ad un genere a sé, che del resto nell’antichità fu rappresentato da altri esemplari: l'Aracnomachia, per esempio, la Geranomachia (battaglia delle gru: certo coi Pigmei, i loro eterni nemici), la Psaromachia (battaglia degli storni). E possiamo credere che la Batracomiomachia, come fu il piú celebre, cosí fosse il primo e il modello di tutti questi poemetti.

Comunque, non merita il superbo dispregio di qualche critico moderno. È una cosetta, d’accordo: è un quadretto di genere; ma di linee giuste e di colori vivaci; e dopo tanti secoli si legge tuttora con gran diletto.



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     Supplico, qui, nel principio, che scendano giú d’Elicona
le Muse in coro a me nel seno, ed ispirino il canto
che or or, sopra le mie ginocchia fissai nelle carte:
supplico che l’immane contesa, il tumulto di Marte,
io faccia a tutte quante suonare le orecchie mortali,
come sovressi i ranocchi piombarono e vinsero i topi,
che dei Giganti nati dal suolo emularon le gesta,
come ne fu tra i mortali ricordo. E fu tale il principio.

     Un topo arso di sete, sfuggito alle grinfie d’un gatto,
ad uno stagno un giorno la tenera gota appressava,
e si godeva l’acqua piú dolce del miele. Lo scorse
un abitante canoro di quella palude, e gli disse:
«O straniero, chi sei? Donde giungi a tal riva? Tuo padre
chi è? Rispondi il vero, fa' ch'io non ti scopra mendace.
A casa mia, se amico sicuro ti trovo, io t'adduco,
ed ospitali t'offro regali, piacevoli e molti.
Io Gonfiagote sono sovrano, che in questa palude,
sopra i ranocchi, a vita comando, da tutti onorato:
il padre mi nutrí Fanghèo, che con Vagadellacque

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stretto in amore fu, dell'Erídano presso a le sponde.
Ed anche te, piú bello d’ogni altro ti veggo, e piú forte:
lo scettro in pace, in guerra tu stringi, di certo, la spada:
un re sei tu: vien’ presso: qual'è la tua stirpe a me narra».

     E a lui Rubamolliche rispose con queste parole:
«Perché la stirpe mia chiedi tu? La conoscono tutti
gli uomini, i Numi tutti, gli uccelli che volano in aria:
Rubamolliche sono, se chiedi il mio nome: son figlio
del generoso Rodipagnotte: la mia genitrice
fu Leccamàcine, figlia del Sire Rosicchiaprosciutti.
In un presepe a luce mi die’, m'allevò fra i mortali,
con fichi mi nutrì, con noci, con ogni leccume.
Ma come essere amico ti posso, se tanto diversi
sono i costumi nostri? Tu vivi nell'acqua: io costumo
tutto mangiar che si trova fra gli uomini, e nulla mi sfugge:
non pane, entro il rotondo canestro, di fior di farina,
non la schiacciata a pieghe di manto, col sèsamo e il cacio,
non di prosciutto la fetta, né, avvolti entro candida rete,
i fegatelli, o la molle caciotta di latte soave,
non la focaccia di miele, cui bramano anch'essi i Celesti,
né quanto pei festini degli uomini apprestano i cuochi,
con leccornie d'ogni specie rendendo le pentole adorne.
Ma non ràfani io rodo, non cavoli rodo, né zucche,
non di pallenti biete mi nutro o di sèdani: queste
cibarie, fanno tutte per voi che vivete in palude».

     E Gonfiagote, a queste parole sorrise, e rispose:
«Troppo t’esalti per quello che in pancia tu insacchi, o foresto.
In terra e nel palude godiamo anche noi belle cose:

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tante: ché duplice vita concesse ai ranocchi il Croníde:
saltar sopra la terra, nascondere il corpo nell'acqua.
E se sapere anche questo desideri, è agevole cosa:
saltami in groppa, stringiti a me, ché non sdruccioli, forte,
e la mia casa vedrai, senza correre rischio di sorta».

     Disse cosí, gli porse la groppa: ed un salto leggero
quello spiccò, vi balzò, stringendosi al valido collo.
E, sinché vide vicini gli approdi, era tutto contento,
e, Gonfiagote mirando procedere a nuoto, esultava.
Ma, come fu bagnato dai flutti purpurei, dirotto
pianse, la coda, a guisa di remo protese nell’onde,
tutti pregando gli Dei che tornar lo facessero a terra,
tardi a sé stesso volgendo rimproveri vani; e alla pancia
stringeva i pie’, si strappava le chiome, ed il cuor gli batteva,
terribilmente, stretto da gelida angoscia, nel petto.
Non sovra il dorso cosí recava il fardello amoroso
il tauro, allor ch’Europa condusse tra i vortici a Creta,
come recava il topo sul dorso, quel di Gonfiagote
stendendo sopra l'acque purissime il ventre verdastro.

     Ed ecco, d’improvviso, comparve una biscia: tremendo
spettacolo per tutti: su l’acqua alta ergeva la testa.
Come la vide, cosí Gonfiagote nell’acqua s’immerse,
ed obliò qual compagno lasciava alla morte: nel fondo
della palude s’immerse, schivando la livida Parca.
Quello piombò, come fu lasciato, supino su l’acque,
le braccia in sé raccolse, mandò, moribondo, uno strido:
e scomparia sovente nell’acqua, e sovente, scalciando,
tornava ancora a galla; ma come sfuggire al Destino?

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Madidi sopra lui pesavano troppo i capelli;
e in tali accenti, già vicino a morire, proruppe:
«Occulta non potrà, Gonfiagote, restar la tua frode:
ché me dal dorso, come da rupe, scagliasti ne l’onde.
Sopra la terra, o tristo, non mai nel pancrazio o alla lotta
tu superato m’avresti, né al corso: perciò con l’inganno
tu m’hai scagliato nell’onde. Ma vigile è l’occhio dei Numi;
e tu, scontar le colpe dei topi alle schiere dovrai».

     Disse, e nell'acqua esalò l'estremo respiro. Lo vide
Leccataglieri, che stava seduto sui molli declivi,
ed un orrendo grido levò, diede ai topi l’annunzio.
Lo scempio udito quelli, fûr pieni di cieco furore,
e dissero agli araldi che all'alba chiamasser le turbe
a parlamento, alla casa di Rodipagnotte, del padre —
misero padre! — di Rubamolliche, che a fior del padule
supino errava, immoto cadavere, e giunto alla riva,
non era, e galleggiava, tapino, nel mezzo dell’acque.

     Giunsero tutti, in fretta, su l’alba cosí. Primo surse
Rodipagnotte, crucciato pel figlio; e cosí prese a dire:
«Sebbene io solo tanta iattura patii dai ranocchi,
per tutti quanti, o amici, la prova sofferta è ben grave.
Or misero sono io, che tre miei figliuoli ho perduti.
Un gatto al primo tolse la vita, il più infesto dei gatti,
che dalla tana fuori lo colse, e fra l’ugne lo strinse.
Gli uomini addussero l’altro, crudeli, al fatale destino,
che ritrovaron con arti mai viste un tranello di legno
distruggitore dei topi, cui dànno di trappola il nome.
Terzo era questo, a me diletto e alla nobile madre,

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e nell’abisso me l’ha Gonfiagote condotto, e l’ha spento.
Su via, l’armi impugnate, le membra coi lucidi arnesi
variopinti di guerra s’adornino; e a campo si muova».

     A prender l’armi, tutti convinse con queste parole;
e Marte stesso li armò, che cura si dà delle guerre.
E pria, verdi baccelli di fave, che avevano roso,
tutta la notte a veglia restando, spaccarono a mezzo,
ne congegnaron gambiere, ne fecero schermo agli stinchi.
Poi, con sagacia molta, spellarono un gatto, ed a pezzi
fattone il cuoio, e di giunchi copertolo, fecero usberghi:
d’una lucerna il fondo rotondo serviva da scudo:
lunghi lunghi aghi, bronzea fatica di Marte, fur lancie:
cinsero per elmetto un guscio di noce alle tempie.

     Stavano in campo armati cosí, dunque, i topi. E i ranocchi,
come li videro, fuori balzaron dall’acqua a raccolta,
e tennero sul lido consiglio di guerra: e mentre essi
cercavan dell’assalto la causa e del fiero tumulto,
giunse un araldo ad essi, che in pugno reggeva lo scettro,
Bazzicapentoli, figlio di Scavaformaggi animoso,
che della guerra l’annunzio funesto recava; e si disse:
«Ranocchi, i topi a voi mi mandan con tale minaccia:
che voi d’armi cingiate le membra allo scontro di guerra:
però ch’àn visto Rubamolliche nell’onde, a cui morte
il sire vostro die’, Gonfiagote. Su, dunque, alla guerra,
quanti alla guerra, fra voi ranocchi, si vantan più prodi».

     Diede cosí l’annunzio. L’eletta concione agli orecchi
giunse, e turbò dei ranocchi superbi le menti; e rampogna

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mossero al re; ma questi, sorgendo a parlar, cosí disse:
«Io non uccisi, amici diletti, quel topo, né vidi
quando morí. S’annegò, scherzando da sé nel padule,
ché delle rane il nuoto voleva imitare: e quei tristi
accusano ora me, che sono innocente. Consiglio,
su via, si tenga, e modo si cerchi che vadano spenti
i frodolenti topi. Per me, questo è il meglio ch’io dico:
saldi, le membra cinte dell’armi, piantiamoci tutti
dove all’estremità delle ripe scoscende il terreno;
e quando sopra noi piomberanno all’assalto, chiunque
ci venga a tiro, noi, ghermendolo a sommo il cimiero,
precipitiamolo giú, bello e armato nell’acqua; e affogati
quando li avremo, ché sono di tuffi inesperti, nell’onde,
esulteremo, con lieto trofeo, della strage topesca».

     Tutti convinse, parlando cosí, che cingessero l’armi.
Strinsero prima agli stinchi ripari di foglie di malva,
fecero le corazze di floride bietole verdi,
dei cavoli le foglie foggiarono ad uso di scudi,
un giunco aguzzo in pugno ciascuno serrò come lancia,
poser come elmi in capo di piccole chiocciole i gusci.
E, fermi su le ripe sublimi, a schermire l’assalto,
l'aste scoteano, e tutto furore era il cuore d’ognuno.

     E chiamò Giove i Numi nel cielo stellato a raccolta;
e, le guerresche turbe mostrando, e i gagliardi guerrieri,
molti, aitanti, che in pugno stringevan le lunghe zagaglie,
qual di Centauri o vuoi di Giganti un esercito muove,
chiese, ridendo soave: «Chi dunque dei Numi ai ranocchi
muove in aiuto, chi ai topi?». Poi, volto ad Atena, le disse:

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«O figlia, e dunque, tu non muovi a soccorrere i topi?
Eppur, nei templi tuoi mai sempre saltellano, attratti
dal fumo delle offerte, dai tanti squisiti bocconi!».

     Cosí disse il figliuolo di Crono; ed Atena rispose:
«Padre, mai non sarà ch’io muova in soccorso dei topi,
per quanto nelle angustie li vegga: ché troppi m’han fatti
perfidi tiri, danni recando alle bende e alle lampe,
per via dell’olio: tanti misfatti mi morsero il cuore.
Però, dare soccorso non voglio neppure ai ranocchi:
ché neppure essi a posto non hanno la testa: ché ieri
dalla battaglia tornai stanca morta, ed avevo bisogno
tanto, di fare un buon sonno; ma quelli, col loro schiamazzo,
non mi lasciaron dormire neppure un istante; ed insonne
giacqui, col mal di capo, cosí, fino al canto del gallo.
Lasciamo andare, o Numi, non diamo soccorso a nessuno,
ché alcun di noi ferito non resti d’aguzza saetta:
ché, pur se un Nume a loro s’accosta, son fegati sani:
dunque, godiamoci tutti, dal cielo a guardar la battaglia».

     Cosí diceva. E tutti le diedero ascolto i Celesti,
e nello stesso luogo convennero tutti a vedere.

     E le zanzare allora, fornite di búccine lunghe,
levarono gli squilli di guerra tremendi; e dal cielo
Giove Croníde tuonò, presagio di guerra funesta.

     E qui, primo Altostrilla di lancia ferí Leccaluomo
che combatteva fra i primi, nel ventre, del fegato a mezzo:
piombò prono, imbrattò nella polvere i morbidi crini.

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Bazzicatane poi, di lancia ferí Bellettone,
gli conficcò nel petto la salda zagaglia. La negra
Morte il caduto rapí, gli uscí dalle labbra lo spirto.
Poi, Bietolaio colpí nel cuore Saccheggiapignatte.
Rodipagnotte nel mezzo ferí della pancia Strillone:
a terra cadde prono, volò dalle membra lo spirto.
Godipalude, visto cadere Strillone, nel collo
morbido Bazzicatane percosse di rapido colpo,
con una pietra grande: sugli occhi la tenebra scese.

     Ma contro lui Leccaluomo vibrò la sua fulgida lancia,
né lo fallí, ma lo còlse nel fegato; e come poi vide
Cavolifago in fuga, piombò su le ripide rive,
né desisté dalla pugna, ma piú l’incalzò, lo percosse.
Piombò l’altro, né piú si riebbe: purpureo sangue
tinse il palude; e giacque la salma lunghessa la riva.

     E, su le rive, Palustre di vita privò Pappacacio.
Succiabasilico vide Rosicchiaprosciutto; e sgomento
restò, nella palude scappò, gittò lungi lo scudo.
Sguazzanelonda accoppò Rosicchiaprosciutti sovrano,
che un sasso gli avventò sul cocuzzolo: fuor dalle nari
stillò tutto il cervello: di sangue si tinse la terra.
Leccapignatte a Giacinelfango perfetto die’ morte,
ché lo colpi con l’asta: negli occhi la tenebra corse.
Masticalaglio lo vide, pel piede il cadavere strinse
presso al calcagno, e giú lo trasse a morir nel padule.
A vendicare volò Rubabriciole i morti compagni,
percosse a mezzo il ventre, nel fegato, Masticalaglio.
Come lo scorge Sguazzanelbrago, un pugnello di fango

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gli scaglia contro, il viso gl’imbratta, a momenti lo accieca.
Grande fu l’ira di quello: levò con la mano massiccia
un gran sasso che a terra giaceva, gravame a le zolle:
colpí con questo Sguazzanelbrago al ginocchio: si franse
tutto lo stinco dentro, supino piombò nella polve.
Corse a riscossa, piombò diritto su lui, lo percosse
lo Strillonide a mezza la pancia; tutto ivi s’immerse
l’aguzzo giunco, a terra l’entragne si sparsero tutte,
mentre il traeva, all’asta confitto, la mano massiccia.
Rodipagnotte colpí Gonfiagote all’estremo del piede:
s’allontanò zoppicando, con gemiti gravi, dal campo
verso una fossa, se qui sfuggisse al destino di morte.
Un giovinetto c’era fra i topi, distinto fra tutti,
prode, diletto figlio del valido Insidiapagnotte,
emulo sin di Marte, Scavizzolabriciole sire,
che nelle turbe dei topi fra tutti era primo in valore.
Vanto faceva costui che avrebbe strappato da solo
dalla palude via la schiatta dei prodi ranocchi.
Ed ebbe allor pietà dei perduti ranocchi il Croníde,
e diede il volo a queste parole, crollando la testa:
«Miseri noi, che prodigio mai vedono queste pupille!
M’interrorisce non poco Scavizzolabriciole, quando
vuol dei ranocchi la razza distruggere! Ed io, quanto prima,
Pallade manderò, tempesta di guerra, con Marte,
che lo sapranno strappare, per prode che sia, da la zuffa».

     Cosí diceva il figlio di Crono; e Giunone rispose:
«Figlio di Crono, la forza d’Atena, la forza di Marte,
non basterebbe a schermire la morte funesta ai ranocchi.
Su via, tutti al soccorso di quelli moviamo; ed impugna

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l’arme tremenda tu, funesta ai Titani, onde morte
desti a quegli esseri forti fra i forti, ed Encèlado in ceppi
stringesti, e le tribú con lui dei selvaggi giganti».

     Cosí disse. E il Croníde scagliò la fumante saetta.
Tuonò dapprima; e un alto rimbombo fu tutto l’Olimpo:
poi la saetta, l’arme celeste che tutto distrugge,
roteò, la scagliò: volò quella dal pugno del Nume,
e tutti sbigottì, colpendoli, e topi e ranocchi.
Ma neppur questo frenò dei topi l’esercito; e tanto
di piú, sopra i ranocchi piombavano, a farne sterminio,
se non si fosse a pietà di loro commosso il Croníde,
che a lor mandò, mentre essi perivano, nuovi alleati.
Vennero ad un tratto i Branchiricurvi, gl’Incudinidorsi,
Movidisbiego, Tuttossi, Camminallindietro, Ampispalle,
Pellidiscaglia, Bocchedipinza, Pellucidischiene,
Spilunghibraccia, Zampisciancati, Pupillenelpetto,
Ottàpodi, Bicorni, Perimperforàbili. Granchi
detti son essi; e ai topi coi morsi mozzavan le code,
le mani e i piedi. Ed ecco, piegare si vider le schiere.
Ebbero i miseri topi sgomento a vederli; né saldi
stetter, ma volsero a fuga. Già il sole volgeva al tramonto.
Questa la fine fu della guerra durata un sol giorno.


Note

  1. εἲνεκ᾿ ὰοιδῆς νέον ἔν δέλτοισιν ὲμοις ὲπὶ γούνασι θῆκα.