Opere (Lorenzo de' Medici)/X. Altercazione/Capitolo II.

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II. [Marsilio Ficino spiega agli altercanti in che consista la vera felicitá.]

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II. [Marsilio Ficino spiega agli altercanti in che consista la vera felicitá.]
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CAPITOLO II

[Marsilio Ficino spiega agli altercanti in che consista la vera felicitá.]


     Eran gli orecchi a sue parole intesi,
quando una nuova voce a sé gli trasse,
da piú dolce armonia legati e presi.
     Pensai che Orfeo al mondo ritornasse
o quel che chiuse Tebe col suon degno,5
sí dolce lira mi parea sonasse.
     — Forse caduta è dal superno regno
la lira ch’era tra le stelle fisse, —
diss’io: — il ciel sará sanza il suo segno;
     o forse, come quello antico disse,10
l’alma d’alcun di questi trasmutata
nel sonator per suo destin si misse. —
     E mentre che tra fronde e fronde guata,
e segue l’occhio ove l’orecchio tira
per veder tal dolcezza d’onde è nata;15
     ecco in un punto sente, intende e mira
l’occhio, la mente nobile e l’orecchio
chi suona, sua dottrina e la sua lira.
     Marsilio abitator del monte vecchio,
nel quale il cielo ogni sua grazia infuse,20
perch’ei fusse ai mortal sempre uno specchio;
     amator sempre delle sante Muse,
né manco della vera sapienzia,
talché l’una giamai dall’altra escluse;

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     perché degno era d’ogni reverenzia,25
come padre comun d’ambo noi fosse,
surgemmo lieti della sua presenzia.
     Lui non men lieto al bel fonte fermosse;
e poi che assiso fu sopra d’un sasso,
fermò il bel suono, e le parole mosse.30
     Io ero dell’andar giá stanco e lasso,
e per venir dove or sí mi ricreo,
guidò qualche felice nume il passo.
     Ma prima: — Lauro, salve, e salve, Alfeo,
de’ prudenti pastor certo il piú saggio,35
e per la lunga etá buon padre meo.
     Maraviglia di te, pastor, non aggio,
ché spesso insieme ci troviamo al fonte,
e talor sotto qualche ombroso faggio.
     Ma veder te sopra il silvestro monte40
crea, Lauro, in me gran maraviglia,
non ch’io non vegga te con lieta fronte.
     Chi di lasciar tua patria ti consiglia?
Tu sai che peso alle tue spalle dánno
le publiche faccende e la famiglia. — 45
     E io a lui: — Tanto è grieve l’affanno,
che sol pensando addoloro ed accidio,
che le cose, che di’, drieto a sé hanno.
     Leva’mi alquanto dal civil fastidio,
per ricrear, col contemplar, qui l’alma50
la vita pastoral, la quale invidio.
     La nostra è troppo intollerabil salma,
qual comparando alla pastoral vita,
bench’egli il nieghi, a lei darei la palma.
     Questo disputavam, quando sentita55
fu la tua lira, ed a quel dolce suono
súbito la dispúta fu finita.
     Or poiché Dio di te n’ha fatto dono,
dicci chi di noi erra il ver cammino,
e se le nostre vite han vero buono;60

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     se pur lo vieta a noi nostro destino,
qual vita quella sia che se n’adorni,
o se ’l mondo la dá, o s’è divino.
     Ogni arte, ogni dottrina, e tutti i giorni,
ogni atto, ogni elezione a questo bene,65
par, com’ogni acqua, all’alveo marin torni.
     Ma qual sia questo a te dir ne conviene,
perché tu ’l sai: or fa tal nodo sciolga,
che ’l cor serrato in molta angustia tiene. —
     Marsilio a noi: — Convien che ’l mio cor volga70
lá dove il vostro è tutto inteso e vòlto,
benché provincia assai difficil tolga.
     Piú facil è, chi ’l vero ha ben raccolto,
veder dov’ei non è, che aver compreso
qual sia in tanta oscuritate involto.75
     L’amor fará men grieve assai tal peso:
nulla disdire al vero amor conviensi,
perch’un son quei, che ’l vero amore ha preso.
     E prima ch’io dic’altro, alcun non pensi
di trovar ben che sia perfetto e vero,80
mentre l’alma è legata in questi sensi.
     Questo ha fatto colui che ha ’l sommo impero,
perché i mortali al tutto erranti e ciechi
non fermin per di qua solo il pensiero.
     Se son dal ver cammin distorti e biechi85
nell’imagin del bene, or che farièno
credendo questa vita il bene arrechi?
     Il vero bene è un, né piú né meno,
il quale Iddio appresso a sé par serbi
per palma a quei che ben vivuti fieno.90
     Onde a’ mortal troppo elati e superbi
avvien, se innanzi tempo cercar vogliono,
come a chi coglie i frutti ancora acerbi.
     Se pur mangian di quei che acerbi cogliono,
tanto acri son che’ lor denti ostupescono,95
onde levar dall’impresa si sogliono.

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     Né sanno come dolci poi riescono,
ma impauriti nella prima impresa,
da uno in altro error tutto dí crescono.
     Ma il prolungare a voi ed a me pesa,100
né voglio avvenga a me come a coloro,
che hanno il ciel come una pelle estesa.
     Dico che questo ben, questo tesoro
cerco e descritto giá da tante lingue,
sel serba Iddio nel suo superno coro:105
     ove ogni ardore e passion s’estingue,
e perché molti ben sono apparenti,
in questo modo prima si distingue.
     Tre spezie son de’ beni uman presenti,
— cosí comincia chi tal nodo scioglie, — 110
che cader posson nelle nostre menti:
     i primi la Fortuna dá e toglie,
gli altri que’ ben che al corpo dá natura,
i terzi l’alma nostra in sé raccoglie.
     Quadripartita i primi han lor misura,115
dominazion, ricchezza, onore e grazia,
e questi ultimi due hanno una cura.
     La prima, quanto piú ampla si spazia,
ha piú sospetti; ed a quanti piú dòmini,
con piú convien che stia in contumazia.120
     Cesare il vero ben par questa nomini,
e pur vivendo alfin poté vedere,
che quel che impera piú, serve a piú uomini.
     L’altra è molte ricchezze possedere;
e perché tal disir mai fin non trova,125
non debbe ancor quiete alcuna avere.
     Ed oltra questo mal per ben s’approva,
e stoltamente alcuno in quel s’affida,
che spesso nuoce assai piú che non giova.
     Per sé giá l’òr non si disia o grida,130
ma ad altro effetto: adunque non è quello
intero ben, come giá parve a Mida.

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     L’onor che par sí spezioso e bello,
che molti sciocchi il ben fermano in lui,
non è quel vero ben, di ch’io favello.135
     Ben non è quel, ch’è in potestá d’altrui:
riposto è questo tutto in chi t’onora,
che lauda spesso, e non sa che o cui.
     Anzi quanto è la turba, che piú ignora,
che i sapienti, tanto manco è scorto140
colui che laude merta ampla e decora.
     Spesso si lauda o biasma alcuno a torto,
e spesso avvien che sanza sua saputa
si lauda, e tal laudare a lui è morto.
     Questa dunque non è vera e compiuta145
dolcezza, come alcun cieco giá volse,
che in questo error la mente ebbe involuta.
     E chi pel primo fior la grazia tolse,
errò; ed in questa il bene usava porre
chi ’l mondo in pace sotto sé raccolse.150
     Però che quel pericol proprio corre,
questa benivolenzia, che l’onore:
altri la dá, altri la può ancor tôrre.
     Onde veggiam che invan si pone il core
dove sanza ragion Fortuna impera,155
poi che ognuna di queste e manca e muore.
     Questi apparenti ben da mane a sera
ci toglie e dá lei cieca ed importuna,
né saggio alcuno il pensier ferma o spera,
     dove ha potenzia la crudel Fortuna. — 160