Opere minori 1 (Ariosto)/Elegie e Capitoli/Elegia XVII

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Elegia XVII

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Elegie e Capitoli - Elegia XVI Elegie e Capitoli - Capitolo I
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ELEGIA DECIMASETTIMA.




     1Rime disposte a lamentarvi sempre,
Accompagnate il miserabil côre
3In altro stil che in amorose tempre:

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     Ch’or giustamente da mostrar dolore
Abbiamo causa, ed è sì grave il danno,
6Che appena so s’esser potría maggiore.
     Vedo i miei versi che smarriti stanno
Udendo intorno il lamentar comune,
9Ch’ove lor debbian cominciar non sanno.
     Vedo l’insegne scolorite e brune,
Sospiri e pianti mescolati insieme,
12Da môver l’alme di pietà digiune.
     Vedo Ferrara che privata geme
Di sua adornezza; e per grand’ira intorno
15Il fiume Po che mormorando freme:
     Il qual, presago,2 il sventurato giorno
In cui la somma Volontà dispose
18Che un’alma santa fésse al ciel ritorno,
     Per non vedere, ogni suo studio pose
D’allontanarsi all’infelice terra;
21Sì che in più parte le sue sponde róse.
     Argini e ripe ed ogni opposto atterra:
Pur con ingegno dal fuggir si tenne
24Dall’alveo antico, dove ancor si serra.
     Che ricordar mi fa di quel che avvenne
Dopo la morte del famoso cive,3
27Che armato in Roma, ad occuparla venne.
     Allora il Tebro superò le rive,
Come ha quest’altro al tramontar di questa
30Stella, che in ciel santificata vive.
     Folgori e venti allor, pioggia e tempesta
Ondaro4 i campi; ed altri segni ancora
33Fecer la gente timorosa e mesta;5
     Com’ora è apparso a dimostrar quest’ora
Venuta a tramutar la città lieta,

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36Le feste e i canti,6 e a lacrimar Lionora.
     Più segno di dolor che una cometa,
Precorse il tristo dì; chè ’l chiaro lume
39Perdè in gran parte il lucido pianeta.
     Il sol, per cui convien che ’l ciel ne allume,
Vide Ferrara sconsolata e trista,
42E riconobbe il doloroso fiume;
     E ancor quest’onde a riguardar s’attrista
Sì, ch’ei turbò la luminosa fronte,
45Mostrando oscura e impallidita vista.
     Le genti meste al lacrimar sì pronte,
Le Eliadi proprio gli parca vedere,
48In ripa al fiume richiamar Fetonte.
     Nè gli occhi asciutti potè il ciel tenere
Per gran pietade, e dimostrò ben quanto
51Qua giù si debba ogni mortal dolere.
     Or si rinforzi ogni angoscioso pianto;
Che assai si chiami al paragon del male,
54Mai non potremo condolerci tanto.7
     Crescano i fiumi al lacrimar mortale,
Crollino i boschi al sospirar frequente;
57E sia il dolor per tutto il mondo eguale.
     Ma piangi e grida più ch’ogn’altra gente,
Tu8 che abitasti sotto il giusto regno,
60Rimasta al suo partir trista e dolente.
     Chè morte orrenda col suo ferro indegno,
Se uccise quella, a te fece una piaga,
63Di che molt’anni resteràtti il segno.
     Non eri forse del tuo mal presaga:
Ma se ben pensi, pur9 perduta hai quella

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66Che sì fu in terra di ben farti vaga,
     Abitatrice in ciel fatta novella,
Lassando in terra la sua fragil spoglia,
69Di sue virtudi e più onorata e bella
     Sì che di noi, non del suo ben ci doglia;
Che ’l spirto in ciel dalle sue membra sciolto
72Di ritornar qua giù non ha più voglia.
     Vero è che pur di noi le incresce molto;
Chè ancor l’usata sua pietà riserba.
75Nè morte il popol suo dal côr le ha tolto.
     Ma nostra doglia mal si disacerba
Pensando che sua vita è giunta al fine,
78Non già matura ancor, ma quasi in erba.
     Qual man crudel che, fra pungenti spine,
Schianta la rosa ancor non ben fiorita,
81Morte spiccò da quella testa un crine.10
     Quest’ora da Dio in ciel fu stabilita;
Che degno di costei non era il mondo,
84Anzi là su d’averla seco unita.
     O di virtude albergo almo e giocondo,
Debb’io forse narrar la tua eccellenza,
87A cui me stesso col pensar confondo?
     Chè l’infinita e somma Provvidenza
Degna ti reputò della sua corte,
90Più per giustizia assai, che per clemenza:
     E per tirarti alle sidéree porte
(Mandati prima a te li nunzî suoi),
93Calò dal ciel la tremebonda Morte.
     Non come è usata di venir fra noi
Con quella falce sanguinosa e oscura,
96Apparve Libitina agli occhi tuoi.
     Descriver non saprei la sua figura;
Ma venne onesta e in sì leggiadro viso,
99Che nulla avesti al suo venir paura;
     E, con dolci atti e con piacevol viso,
Disse: — Madonna, vien, ch’io son mandata
102Per tôrti al mondo e darti al paradiso. —

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     O glorïosa in cielo alma beata,
Allora uscendo del corporeo velo
105Al sommo Redentor ne sei tornata;
     Volasti, accesa d’amoroso zelo,
Lassando i tuoi devoti infermi ed egri.
108Santa, gioconda e risplendente, al cielo.
     Beata al novo albergo or ti rallegri:
Noi, che dolenti al tuo partir lasciasti,
111Piangendo andiam vestiti a panni negri.
     Fra que’ spirti del ciel vergini e casti,
Non disdegnare, ben venuta donna,
114Guardar le genti tue che al mondo amasti.
     E come in terra a noi fosti madonna,
Servendo ancor là su l’usanza antica,
117Riman del popol tuo ferma colonna,
     O in cielo e in terra di virtude amica.




Note

  1. Fu questa poesia scritta dall’autore nell’età di diciannove anni, per la morte di Leonora d’Aragona, moglie del duca Ercole I di Ferrara, accaduta l’anno 1493; e pubblicata la prima volta dal Pitteri (Barotti), che la trasse da un antico manoscritto, forse non correttissimo, posseduto dal (seniore) Baruffaldi. Il Pezzana, ristampandola, tentò migliorarne in alcuni luoghi la lezione. — (Molini.)
  2. Per la migliore intelligenza dei seguenti terzetti, giova riferire quanto fu scritto dal Baruffaldi: «Di due straordinari avvenimenti in quell’anno accaduti... si valse ad ornare poeticamente il componimento. Uno fu l’eclisse del sole, e l’altro l’insolita escrescenza del Po, con rottura d’argini e disastrose inondazioni: i quali avvenimenti egli ingegnosamente accenna, o come presagi funesti che precedettero, o come sventura che accompagnarono la morte di Eleonora.» Vita ec., pag. 72.
  3. Cesare. Vedi l’ode seconda del libro primo di Orazio: Iam satis terris nivis ec.
  4. Singolarità di linguaggio poetico, già raccolta dal Brambilla.
  5. Questi segni che precedettero la morte di Leonora furono indicati dal Guarino nell’orazion funebre per la medesima, che trovasi stampata. — (Molini.)
  6. Avverte molto opportunamento il Baruffaldi: «In mezzo alle ricordate sciagure non dovean certo aver luogo allegrezze e tripudi: ma è da ricordare che, nel maggio di quell’anno medesimo, essendo venuto a Ferrara da Milano Lodovico Sforza detto il Moro con la sua sposa Beatrice Estense, ed altra nobile comitiva, il duca Ercole in tale occasione avea fatte celebrare grandissime feste, con giostre e tornei all’uso di que’ tempi, per lo spazio di molti giorni; ed oltre a ciò, poco prima della morte di Eleonora, cioè alli 21 settembre, era stato promosso alla dignità cardinalizia Ippolito Estense I; ed abbenchè questi, giovine di non più di anni quindici, si trovasse allora in Ungheria, dovette ciò non per tanto la lieta novella recare grandissima allegrezza, e dar motivo di feste al popolo ferrarese.» Vita ec., pag 72.
  7. Non potremo mai condolerci tanto, che si chiami (giudichi) abbastanza, rispetto alla grandezza del male.
  8. Tu, gente di Ferrara.
  9. Asseverativo, come nel Petrarca, canz. XXII, 3; e in altri autori.
  10. Imitazione del Petrarca ove dice, descrivendo la morte di Laura: «Allor di quella bionda testa svelse Morte con la sua man un aureo crine.» (Trionf. mort., cap. I.) Sentesi che l’Ariosto ebbe vôlto il pensiero a quel capitolo del sommo lirico, e seppe aggiungere ai concetti soavissimi di quest’ultimo la bella immagine che trovasi ai versi 98-102.