Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. II, Laterza, 1912.djvu/74

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ATTO III

SCENA I

Messer Giannino, Sguazza, Vergilio, Cornacchia cuoco.

Messer Giannino. Vedi, Sguazza, d’esser diligente intorno a questo Lorenzino, ch’io ti dico che non ho ora altra speranza che nei casi tuoi; e Vergilio, qui, sa che molte volte gli ho detto quanta fede ch’io abbia in te.

Vergilio. Sa ben lo Sguazza quel ch’io glie n’ho detto.

Sguazza. Io posso poco, messer Giannino, perché nacqui povero; ma di affezione non avete uomo al mondo che ve ne porti piú di me.

Messer Giannino. Che cosa è povero? hai paura che ti manchi robba? Guarda quel ch’io ti dico. O riesca questa cosa o non riesca, in tutti e’ modi, non ti mancarò mai; ma, se per caso vengono a qualche buon termine con Lucrezia i casi miei, voglio che tu sia centomila volte piú padrone di quel ch’io arò sempre che la mia persona propria. Fa’ ch’io non ti senta piú dir «povero».

Sguazza. La robba sta bene a voi. A me basta che mi vogliate bene e mi vediate voluntieri spesso in casa vostra.

Messer Giannino. Non ti so far piú parole. Alla giornata conoscerai s’io ti farò piacere o no. Ma non indugiar piú a andare a trovar questo Lorenzino. E mi tro varai alla buttiga di Guido orafo: ch’io vo’ veder di far finir quello anello acciò che Lorenzino, volendo, el possa portare stasera a Lucrezia.

Sguazza. Lassate il pensiero a me, ch’io non farò altro.

Messer Giannino. Cornacchia!

Cornacchia. Signore!