Pagina:Abrabanel, Juda ben Isaac – Dialoghi d'amore, 1929 – BEIC 1855777.djvu/446

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d’interpunzione e nel sopravvenire di non pochi errori e di sostituzioni arbitrarie. Tuttavia anche di queste edizioni ho tenuto sott’occhio le principali, e segnatamente quella del Giglio (1558), che è la prima a presentare tali novitá, imitate nelle sue consorelle: non potendosi mai escludere che anche un’umile ristampa non dia qualche volta per avventura la lezione piú probabile lá dove resta libero il campo agli arbitri e alle congetture.

Ma giá il testo aldino è di tal natura, che sconsiglia dall’attribuire importanza alla folla delle stampe cinquecentesche. Curato con criteri puramente umanistici, esso è dominato dalla preoccupazione di razionalizzare la grafia, l’interpunzione, la lingua stessa dell’autore; Leone Ebreo vi compare nella veste di un Bembo, di un Varchi, di uno Sperone Speroni: tale cioè da suscitare la piú schietta ammirazione per il suo pieno possesso dell’ortografia e delle buone regole grammaticali, se tutto ciò non fosse a scapito della perspicuitá e dell’intelligibilitá di molti periodi e di non poche intere pagine. Si tratta sempre, intendiamoci, di piccoli ritocchi, a mala pena notabili: ma il loro frequente accumularsi non reca buoni effetti; non essendo stato di certo un filosofo il letterato che attese all’edizione nella casa di Aldo. Questa è generalmente, del resto, la fortuna toccata a tutti i testi antichi e moderni per opera delle grandi case editrici del ’500, di Venezia come di Basibe, di Firenze come di Lione: ne escono lindi e attillati in lucida veste, ma con fisionomia mutata e spesso irriconoscibile.

Il testo romano ci presenta per contro un Leone Ebreo scrittore vivo e spontaneo, padrone della lingua parlata piú che della scritta sebbene pur sempre nell’ambito della lingua colta; la stessa interpunzione irregolare e caotica, ma non pedantesca, e la grafia dell’uso corrente nei primi decenni del’500, con quel suo curioso misto di umanesimo e di volgar eloquio, caratterizzano un aspetto letterario dell’opera che fa correre la mente, come per tanti altri aspetti, a un raffronto con le opere italiane del Bruno. Certamente, non sappiamo quanto merito di questa veste originaria dei Dialoghi spetti al medico israelita e quanto all’editore o, in qualche parte, al tipografo: ma tale ignoranza non può diminuire il nostro apprezzamento dell’edizione romana, che resta, dopo il Commento del Pico alla Canzone d’Amore del Benivieni e il trattato dei Tre libri d’Amore di Francesco Cattani da Diacceto, uno dei primi e piú notevoli testi volgari del linguaggio filosofico nel Rinascimento italiano.