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3. L'incontro con Lawrence Lessig     59

All’inizio del secolo – racconta Lessig nel suo articolo – intravedevamo, all’orizzonte, una sorta di “tempesta perfetta” in arrivo, che avrebbe colpito l’intero mondo della cultura. Avevamo un’infrastruttura digitale che, ormai, incoraggiava un’ampia gamma di condivisioni, remix e pubblicazioni di contenuti che non sarebbero potute avvenire nel Ventesimo Secolo. Avevamo, anche, un’architettura che rischiava, però, di far scattare l’applicazione della parte più restrittiva della normativa sul copyright ogni qualvolta venisse effettuata una semplice copia digitale di un contenuto. Ciò collocò il mondo dei creatori di contenuti digitali in aperta rotta di collisione con la legge, che lo riconoscessero o meno. Per molti, soprattutto per coloro che operavano in quella che io chiamo la sharing economy, ciò non aveva senso. Una grande percentuale di loro aveva continuato a creare contenuti su piattaforme digitali senza tener conto della normativa sul copyright. Di conseguenza, i numeri di casi di “pirateria” erano saliti alle stelle.

Il timore, in quegli anni, era che lo scontro tra queste due “forze” – la nuova economia della condivisione dei contenuti e la formalità della normativa sul copyright – avrebbe potuto produrre o un movimento che avrebbe cercato di abolire completamente il diritto d’autore o, al contrario, un sistema rigido di norme, e di applicazione delle stesse, che avrebbe bloccato tutte queste nuove attività creative con minacce di sanzioni milionarie o, addirittura, della reclusione. Soffocando, così, la creatività nell’ecosistema digitale.

All’epoca – ricorda ancora Lessig – l’opinione prevalente era che o si rispettava il tradizionale approccio di “tutti i diritti riservati”, oppure si doveva essere per forza contrari al copyright o, addirittura, dei “pirati”. Abbiamo cercato, con CC, di stabilire una via di mezzo: abbiamo riconosciuto che, di fatto, molte persone credono nel diritto d’autore, e lo vogliono rispettare, ma non credono che le loro opere creative debbano essere regolamentate in modo così rigido, come nel modello di “tutti i diritti riservati”. Abbiamo deciso, allora, di creare una sorta di sistema volontario di opt-in che permetta ai creatori di contrassegnare le loro opere con licenze che indichino il livello di libertà che desiderano su quei contenuti. Questo sistema ribadisce, innanzitutto, fiducia nel sistema del diritto d’autore e nella normativa che lo tutela, dal momento che si tratta, in sostanza, di una licenza basata sulle regole del copyright, ma afferma, anche, i valori che sono alla base di quegli ambienti creativi – o ‘ecosistemi’ – in cui le regole dello scambio non sono definite dagli aspetti commerciali, ma dipendono soprattutto dalla capacità di condividere e di costruire liberamente sul lavoro di altri.

Da allora, e da quella prima presentazione, il progetto Creative Commons ha compiuto vent’anni, ha raggiunto una nuova maturità, è sopravvissuto all’avvento dei social network ed ha avviato progetti in circa ottanta Paesi; la sua influenza si espande costantemente, in virtù dell’ingresso di sempre nuove realtà statali, locali e private che aderiscono, e ciò anche grazie alle iniziative di una rete dedicata di affiliati, che intraprendono una serie di attività di promozione e sensibilizzazione in differenti giurisdizioni.