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8. Il Guerrilla Open Access Manifesto     93


Infine, era sempre stato affascinato da realtà quali il MIT e Stanford, dove era centrale, tra gli hacker di quei campus, l’idea di condivisione e di eliminazione di tutte le barriere di accesso al sapere.

Il testo del Manifesto non è né lungo, né complesso. Più che un manifesto programmatico, sembra essere una serie di efficaci appunti esposti per fissare alcuni temi di importanza sociale e politica e, soprattutto, per dare il via a una sorta di “chiamata alle armi”.

Richiama molto, come stile e come enfasi, la Dichiarazione di Indipendenza del Ciberspazio che John Perry Barlow aveva redatto nel 1996 per consacrare, e ribadire, la libertà della rete dai tentativi di colonizzazione da parte del mondo aziendale e commerciale.

Il titolo roboante – e un po’ infelice per la presenza del termine Guerrilla – attirerà l’attenzione dell’FBI: il manifesto, che sembrava voler invocare una guerra contro chi chiudesse i contenuti e suggerire, al contempo, un non troppo velato invito a “liberarli”, finirà direttamente nel fascicolo che i federali prepararono quando iniziarono a indagare sulla sua persona.

Il manifesto si apre con la considerazione, ormai acquisita, del livello di potere assunto dall’informazione nella società e nella politica digitale (“Information is power”) e con la consapevolezza che, come accade con tutti i tipi di potere, vi siano dei soggetti, nel mondo elettronico, che quei poteri se li vogliono tenere ben stretti.

L’intera eredità scientifica, e culturale, mondiale, che è stata pubblicata nel corso dei secoli in milioni di libri e riviste – denuncia Aaron – è sempre di più digitalizzata e imprigionata e, letteralmente, bloccata da poche, grandi società private.

Il giovane usa la suggestiva locuzione inglese “locked up”, che rimanda a lucchetti, catene e cancelli chiusi. La conclusione è che un cittadino che volesse, oggi, leggere quegli studi che riportano i più importanti risultati del progresso scientifico si trova davanti a una vera e propria barriera, un “divieto di accesso”, e dovrebbe pagare ingenti somme a grandi editori scientifici per entrare.

La chiamata alle armi di Aaaron è chiara: un quadro simile non va bene, e ci sono persone che non sono d’accordo e che si battono, insieme ad esponenti di varie associazioni, per cambiare la situazione.

Il riferimento esplicito è all’Open Access Movement: un movimento che ha scelto, in tante occasioni, di protestare, proprio domandando agli studiosi di pubblicare i loro lavori con modalità che ne consentissero l’accesso da parte di chiunque.

Il quadro che si è generato, scrive Aaron, rappresenta un prezzo troppo alto da pagare per tutti. Si obbligano – fa notare – gli accademici a pagare ingenti somme di denaro per poter leggere i lavori dei loro colleghi; al contempo, si scansionano e digitalizzano intere biblioteche e raccolte di libri ma, poi, si permette soltanto a Google di gestire il patrimonio costituito da simili documenti.