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libro ii - capitolo iv
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tutto poi dove essi possono mostrarla, traluce la loro indegnazione contra le circostanze, contra i principi e contra se stessi; spessissimo deplorando la necessitá che gli aveva fatti schiavi. Ma, siccome chi legge tien conto all’autore del solo suo libro, e non di veruna sua privata circostanza (poiché se egli non avea la libertá dell’alto scrivere, avea pur sempre quella del nulla scrivere) da ciò ne risulta, che codesti autori vengono giudicati minori di se stessi, appunto di quel tanto che vilmente sagrificarono al proprio timore e all’altrui forza; ciecamente vendendo il loro intelletto, il lor tempo, i loro costumi, a quegli insultanti benefattori del corpo loro, ma micidiali ad un tempo fierissimi della lor fama.

Io dunque penso e conchiudo che il letterato tanto piú va perdendo delle sue intellettuali facoltá, quanto piú accresce egli stesso la sua dipendenza, qual ch’ella sia. E per contrario, conchiudo che tanto piú l’animo, il pensiero, e lo scrivere gli s’innalza, quanto egli piú si fa libero e sciolto da ogni qualunque risguardo o timore; toltone però sempre quello di non offendere le giuste leggi e gli onesti costumi.

— Ma il letterato potrebbe pure ricevere un’altra protezione assai meno insultante, qual è per esempio quella di un suo eguale ed amico; ora, perché dunque non potrá egli riceverla dal principe, quasi da un suo amico privato? — Rispondo: — Il dipendere da un uguale può bensí molto amareggiare la vita allo scrittore, ma non può influire affatto sul pensare e scrivere suo; poiché quell’eguale od amico può pur pensare com’egli sulle cose umane, e non abborrire né temere la veritá che a lui può giovare altresí come a tutti. Ma il principe non ha né amici né uguali; e non può mai essere nel sopraddetto caso.

In nessun’altra maniera dunque potrebbe il letterato lasciarsi protegger dal principe, senza guastare né sé, né il suo libro, né la sua fama, fuorché cavandone quelle tanto desiderate necessitá superflue della vita, vivendo ad un tempo sempre fuori degli stati suoi, e non gli facendo mai capitare alcun de’ suoi scritti. Questa inurbana e stravagante aderenza, che io do per

V. Alfieri, Opere - iv. 10