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ii. del principe e delle lettere
 



tirannide di Lodovico decimoquarto, non sono perciò figli di essa; ma le lettere, preparate giá nel precedente meno avvilito secolo, fiorirono poscia in quello; e, a dir vero, piú assai vi fiorirono per forza d’imitazione dei greci, latini e toscani che non per forza di protezione. Che la protezione, in somma, altro aiuto non può dare ai letterati fuorché i mezzi d’investigare, traspiantare e farsi (ma deviandole) proprie quelle lettere giá nate, coltivate e perfezionate senza protezione, nel seno della creatrice libertá.

Ma questo triplice incalzante esempio di Dante, Petrarca e Boccaccio, che non fiorirono sotto nessun principe, piú che niun altro è atto a terminar la questione. La lingua toscana si è fatta colossale in mano di questi tre grandi, che per proprio impulso scrivevano, e non protetti: nelle loro mani riuniva questa lingua in se stessa la maggiore eleganza e delicatezza alla maggior brevitá ed energia; ed ecco che la toscana, come la greca, perfezionavasi senza macchia di protezione. Ma nei due secoli susseguenti, l’italiana letteratura, essendo dai protettori traviata, poco o nulla si accrebbe la lingua quanto alla nuda eleganza, e tutto perdé quanto al sugo, brevitá e robustezza. In oltre, questi tre sommi scrittori mi vagliano anche per una viva prova della immensa superioritá degli ingegni sprotetti sovra i protetti. A volersi convincere di quanto questi tre, e massime Dante, soverchiassero tutti i nostri seguenti scrittori, sí pel robusto pensare e forte sentire che pel libero e ardito inventare e per la eleganza e originalitá di locuzione, credo che basti il metter loro a confronto l’Ariosto ed il Tasso, come i due migliori che a quello succedessero. E lascierò anche giudice colui che sará il piú parziale di questi, se ci sia in essi cosa, e massime quanto alla locuzione e al concepire, che si possa agguagliare all’Ugolino, e ai tanti altri squarci non meno perfetti, ma meno conosciuti, di Dante, ovvero ai perfetti sonetti, canzoni, e squarci dei Trionfi del Petrarca. E giudice lascio parimente ciascuno se il Tasso e l’Ariosto, scrivendo fra i ceppi di corte, avrebbero ardito mai concepire quei veracissimi sonetti del Petrarca su Roma, o le tante satiriche, ma vere e libere