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122 timoleone
Timof. Ma, tu stesso, i cui giorni eran pur sempre

di giustizia splendor, lume del vero,
non m’hai tu dato di giustizia il brando?
Non mi ottenesti quel poter ch’io tengo,
de’ miei servigj in guiderdon, tu stesso?
Qual forza è dunque di destin sinistro,
che ognor nomar tirannico fa il sangue,
sparso da un sol; giusto nomar quant’altro
si dividono in molti?
Timol.   Odi. — Cresciuti
insieme noi, l’un l’altro appien conosce.
Ambizíon, che di obbedir ti vieta,
aggiunta in copia a bollentissim’alma,
che il moderato comandar ti toglie;
tal fosti, e in casa, ed in Corinto, e in campo.
Timof. Mi rimproveri or forse il don, cui piacque
al tuo saggio valore in campo farmi,
della vittoria e vita?
Timol.   Quel mio dono
era dover, non beneficio; e arrise
fortuna a me in quel punto. Or, non far ch’io
pentir men debba. Io mai guerrier piú ardente
di te non vidi; né Corinto un duce
piú valoroso mai di te non ebbe.
Ma quando poscia a cittadine risse
fu creduto rimedio, (e d’ogni danno
era il peggior) l’aver soldati in arme,
e perpetuo sovr’essi elegger capo;
se al periglioso onore eri tu scelto,
se al militar misto il civil comando
cadeva in te; non m’imputar tal fallo.
Io nol negai; ch’onta era troppa il farmi
del mio fratel piú diffidente io stesso,
che d’un concittadino altri nol fosse;
ma di te, da quel dí, per te tremai,
e per la patria piú: né in cor mi entrava