Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. III, 1947 – BEIC 1728689.djvu/395

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una, le ha quasiché tutte osservate. Il primo atto, brevissimo; il protagonista, per lo piú non messo in palco se non al secondo; nessuno incidente mai; molto dialogo; pochi quart’atti; dei vuoti quá e lá quanto all’azione, i quali l’autore crede di aver riempiti o nascosti con una certa passione di dialogo; i quinti atti strabrevi, rapidissimi, e per lo piú tutti azione e spettacolo; i morenti, brevissimi favellatori: ecco, in uno scorcio, l’andamento similissimo di tutte queste tragedie. Altri osserverá poi, (che piú lungamente e meglio il potrá far dell’autore) se questa costante uniformitá di economia nel poema vi venga bastantemente compensata dalla varietá dei soggetti, dei caratteri, e delle catastrofi.

Quanto alle regole delle tre unitá, mi pare che né per ombra pure non vi sia stata violata mai quella principalissima e sola vera unitá, che posta è nel cuore dell’uomo, la unitá dell’azione. Ed oso io qualificarla di principalissima, e di sola vera, perché quando altri narra o fa vedere un fatto qualunque, chi ascolta non vuole né vedere, né udir cosa, che lo disturbi da quello. L’unitá di luogo è violata in queste tragedie tre volte; nel quint’atto del Filippo, nel quarto, e quinto dell’Agide, e nel quinto del Bruto secondo. Quella di tempo non v’è stata infranta se non se leggermente, di rado, e in tal modo, da non potersene accorgere quasi nessuno, non vi si trovando mai offesa la necessaria verisimiglianza.

STILE

Lungamente, e forse assai troppo, e certamente invano, avrò io parlato dello stile di queste prime dieci tragedie, nel volerlo, come autore, difendere e giustificare, allorché mi occorreva di rispondere su di ciò al signor Calsabigi, e all’abate Cesarotti. Ed avendo io in questa seconda edizione inserite entrambe le suddette risposte, oramai non ne dovrei ragionar piú che tanto, se io quí non mi assumessi l’incarico di parlarne come censore.

Comincierò dunque col dire; che in tutte le dieci prime stampate, quali erano, ci ho riconosciuto costantemente due difetti non piccioli, quanto allo stile; e sono, oscuritá e durezza. E non giá ch’io intenda quí di ridirmi di quanto ho detto nella risposta al Calsabigi circa lo stile tragico, la di cui chiarezza e armonia son convinto dover essere in tutto diversa dallo stile della lirica poesia: