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118 vittorio alfieri


CLXXX.

Quattro gran vati, ed i maggior son questi,
Ch’abbia avuti od avrà la lingua nostra,
Nei lor volti gl’ingegni alti celesti,
Benchè breve, il dipinto assai ben mostra.

Primo è quei che scolpia la infernal chiostra:
Tu, gran padre d’amor, secondo resti:
Terzo è il vivo pittor, che Orlando inostra:
Poi tu, ch’epico carme a noi sol desti.

Dalla gelida Neva al Beti adusto,
Dal Sebéto al Tamigi, eran mie fide
Scorte essi soli, e il genio lor robusto.

Dell’allor, che dal volgo l’uom divide,
Riman fra loro un quinto serto augusto:
Per chi? — Forse havvi ardir, cui Febo arride.

CLXXXI (1786).

Il gran Prusso tiranno, al qual dan fama
Marte e Pallade a gara, or su la sponda
Sta di Cocíto, oltre alla cui negr’onda
Fero Minosse ad alta voce il chiama.

L’alta, sublime, e non regal sua brama
Di ottenere immortal vita seconda,
Quasi lucida fascia or già il circonda,
E ammirabil l’ha fatto a chi men l’ama.

Quindi è dover, che semivivo egli oda
Ciò che di lui dirà libero ingegno;
Se a nomarlo pur mai la lingua ei snoda.

Costui, macchiato di assoluto regno,
Non può d’uomo usurpar nome, nè loda;
Ma, di non nascer re forse era degno.