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l’etruria vendicata. — canto iv 237


Ben so che il tôrre a te la infame vita
Timor può tôrre e non tornar virtude
Nei cittadin della città partita;
So che invano avverrà forse ch’io sude:
Gente fra vizi in rio servir marcita
So qual feccia e viltade in cor racchiude:
Ma fia perciò che un trucidato mostro
Breve gioia non rechi al popol nostro?

Per questa imbelle innanellata chioma
Alla mia manca man tua tronca testa
Doman fia dolce e spaventevol soma:
L’andrò mostrando intorno: e fia gran festa
Veder superbia e crudeltade doma.
Ma in alto a un tempo, a trucidar me presta
Con questo ferro ch’io dal cor ti trassi,
La non tremante destra mia vedrassi.

Forse avverrà che il tuo abborrito sangue
Schiuda all’ardire e a libertà la via:
Forse avverrà che pallido ed esangue
Ogni uom per tema più invilito sia.
Ma, sia che vuole, in me virtù non langue:
Se grande e forte parrà l’opra mia,
Sarò doman liberator nomato;
Se traditor, per mano mia svenato.

E quel tuo Carlo, che al Ducato diede
E non a te sua spuria figlia in moglie,
Se, ucciso te, franca l’Etruria ei vede,
Senz’altro dir la figlia sua ritoglie:
Se pon sui Toschi altro tiranno il piede,
Genero a sè l’altro tiranno accoglie.
Ma non può in vita mai Carlo tornarti
Nè di me palma aver nel vendicarti.

Nè quel tuo padre, o immaginato tale,
Che il Ducato creò per farten duca,
S’anco ei vivesse, il rio poter papale
Varrebbe a trarti dalla inferna buca.
Chi vuol morir, più d’ogni prence ei vale:
Quindi raggio di speme omai che luca
Per te qui dentro, aspetti in van dai grandi
Ch’eran base ai tuoi vizi abbominandi. —