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l’etruria vendicata. — canto iv 239


E in così dir, con ardimento strano
Nella destra del sir Lorenzo ha posto
Il suo proprio pugnal; ma con sua mano
Del duca il pugno ei tien da sè discosto.
Così corregge il generoso insano
Rischio a cui sè per troppo ardire ha esposto
E intanto gli occhi più che bragia ardenti
Sovr’esso tien ferocemente intenti.

Nè il prence in lui più che in sè stesso forte
Far uso alcun del non suo ferro accenna:
Altrui non osa, a sè non sa dar morte:
Sospira, e geme, e col pugnai tentenna.
Già non fia che Lorenzo omai sopporte:
Già col furor che l’ultim’ali impenna,
Gli strappa il ferro in sì terribil atto,
Che in piè qual lampo balza il duca ratto.

Nè so dir come in un baleno ei trova
Via di sguizzar sotto le irate braccia
Di lui ch’era per far l’ultima prova.
Per l’ampia sala indi a fuggir si caccia,
E il terzo giro a volo ei già rinnova:
Ma l’altro il segue, e incalzalo, e minaccia
E al fin l’ha giunto: ecco nel crin gli avvolge
La manca mano: e indietro a sè lo svolge.

Poi, quando in viso ben mirato l’ebbe,
Vile (gridò) tu mi vi sforzi e duolmi;
Che sì onorata man non ti si debbe.
Muori al fin, muori; chè i tuoi giorni hai colmi.
In ciò, piantato in cor gli ebbe e riebbe
Lo stil, finch’ei sua giusta ira ricolmi.
Lagrimando sfuggía l’alma odïosa,
Che fu sì cruda al mondo e obbrobrïosa.