Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/25

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inferno - canto iv 19

     e piú d’onore ancor assai mi fenno,
ch’e’ sí mi fecer de la loro schiera,
102sí ch’io fui sesto tra cotanto senno.
     Cosí andammo infino a la lumera,
parlando cose che ’l tacere è bello,
105sí com’era ’l parlar colá dov’era.
     Venimmo al piè d’un nobile castello,
sette volte cerchiato d’alte mura,
108difeso intorno d’un bel fiumicello.
     Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
111giugnemmo in prato di fresca verdura.
     Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
di grande autoritá ne’ lor sembianti:
114parlavan rado, con voci soavi.
     Traemmoci cosí da l’un de’ canti,
in luogo aperto, luminoso e alto,
117sí che veder si potean tutti quanti.
     Colá diritto, sopra ’l verde smalto,
mi fur mostrati li spiriti magni,
120che del vedere in me stesso n’esalto.
     I’ vidi Elettra con molti compagni,
tra’ quai conobbi Ettor ed Enea,
123Cesare armato con li occhi grifagni.
     Vidi Cammilla e la Pantasilea
da l’altra parte, e vidi ’l re Latino
126che con Lavina sua figlia sedea.
     Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia,
129e solo, in parte, vidi ’l Saladino.
     Poi ch’innalzai un poco piú le ciglia,
vidi ’l maestro di color che sanno
132seder tra filosofica famiglia.
     Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’io Socrate e Platone,
135che ’nnanzi a li altri piú presso li stanno;