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sene. Non ci è che un conforto a quel pensiero, ed è il considerare che quelle atrocità obbriobriose furono inutili a chi le commise, e duplicarono la forza di chi le patì. Non foss’anche stato il sentimento profondo della propria fede, sarebbe bastato l’orrore, l’odio che dovevan provare contro i macellatori, a mantener i valdesi eroicamente immobili nella loro ostinazione; la carne, le viscere loro, oltre che la coscienza, dovevano abborrire anche dalla sola idea d’una simulata conversione; dovevano nascere con l’istinto della resistenza disperata nel sangue i nipoti di quei martoriati. Che gigantesco orgoglio si saran sentiti nell’anima di fronte ai propri nemici! E come si capisce che dovessero amare disperatamente il loro paese, e amarsi tra loro, legati com’erano gli uni agli altri da quelle tremende memorie, dall’odio mostruoso che li circondava, e dall’immensa pietà delle sventure comuni!



Di lassù, guardando nel paese col canocchiale, vidi a una cantonata un cartellone di teatro che annunziava la rappresentazione del Ventaglio del Goldoni. Non potevo trovare migliore pretesto per rompere il filo delle riflessioni tristi. Ma la prima volta che si va tra i Valdesi, è difficile sprigionare il pensiero dal loro maraviglioso passato. Quelle tre date terribili: 1561, 1655, 1686, che sono come le tre piaghe sanguinanti della loro storia, mi pareva di ve-