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238 le termopili valdesi

pascolano le capre, che, a guardarle, dan le vertigini; e piccole case, che par che stian su per miracolo, o che siano appiccicate alle roccie come nidi d’uccelli. Più in basso, altri gruppi di casette rozze e nere, appollaiate sui fianchi dei monti, sotto la perpetua minaccia delle valanghe e dei franamenti dei macigni, che qualche volta le seppelliscono e le sbricciolano come gingilli di vetro. Anche là non vedemmo quasi nessuno, benchè Pra del Torno sia abitato da circa cinquecento persone, tra Valdesi e cattolici: qualche pescatore di trote giù tra i sassi del torrente, un crocchio di bimbi all’ombra d’un agrifoglio, una donna che sfornava il pan nero in un cortiletto. Il torrente non faceva quasi più rumore. Dopo mezz’ora di cammino, in silenzio, arrivammo sopra una rocca, dov’è un tempietto nuovo, d’uno stile misto di gotico e d’arabesco, e dipinto di bianco e di rosso, come un padiglione di giardino. Ai piedi della rocca ci son poche case e una chiesetta cattolica. La valle pareva chiusa da tutte le parti, a sinistra dai monti che forman la stretta di Balfero, a destra dai monti di Soiran o dall’Infernet, ripidissimi, nudi, grigi, tutti roccia, che fendevan l’azzurro. Eravamo come caduti in un agguato della montagna, imprigionati, segregati dal mondo, in fondo a un enorme sepolcro concavo spalancato verso il cielo. E tutt’intorno, nè un rumore, nè una forma, nè una voce umana. Non c’era che una ragazza di dodici o tredici anni, una piccola vaccaia, scalza, con un cenciuccio di vestito, seduta in terra davanti al tempio, che leggeva un libro. Guardai il titolo: era