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423 ANNALI D'ITALIA, ANNO CXVI. 424

esorbitante: ma lo avea accresciuto a dismisura la venuta colà della corte imperiale, e di gran copia di soldatesche. V’era inoltre concorsa un’immensa moltitudine di persone di quasi tutto l’imperio romano, chi per negozi, chi per bisogno del principe, chi per veder quelle feste. In tale stato si trovava quella nobilissima metropoli dell’Oriente; quando nel dì 25 di decembre, come pretende il padre Pagi1, venne un sì impetuoso tremuoto, preceduto da fulmini e da venti gagliardissimi, che rovinò buona parte delle fabbriche della città, con restare oppressa sotto le rovine gran moltitudine di persone, ed innumerabili altri con ferite e membra rotte. Si vide il vicino monte Corasio scuotere sì forte la cima, che parea dover precipitare addosso alla città; uscirono da più luoghi nuove fontane, e si seccarono le vecchie. Acquetato il gran flagello, si cominciò a pescar nelle rovine, e moltissimi vi si scoprirono morti di fame. Trovossi una sola donna che avea sostentato per più giorni sè stessa e un suo pargoletto col proprio latte, ed amendue furono cavati vivi: il che par cosa da non credere. Trajano che s’incontrò ad essere in sì brutto frangente, per una finestra del palazzo, in cui abitava, se ne fuggì; e scrivono che un personaggio d’inusitata e più che umana statura lo ajutò a salvarsi. Tal fu nulladimeno la sua paura, che quantunque fosse cessato lo scotimento della terra, pure per molti giorni volle abitare a cielo scoperto nel Circo. In questa sciagura perdè la vita Pedone console, che terminato il suo consolato ordinario ne’ primi sei mesi potè molto ben venire pe’ suoi affari ad Antiochia; se pur non fu un altro Pedone, stato console in alcun degli anni precedenti.


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Anno di Cristo CXVI. Indizione XIV.
Alessandro papa 9.
Trajano imperadore 19.


Consoli


Lucio Elio Lamia ed Eliano Vetere.


Chiaramente scrive lo storico Dione2 che dopo il tremuoto di Antiochia (e però nell’anno presente, e non già nel precedente) venuta la primavera, Trajano con tutto lo sforzo delle sue genti si mosse per portar la guerra nel cuore del regno dei Parti. Conveniva passare il rapido fiume Tigri, le cui sponde, dalla parte del Levante, erano ben guernite di nemiche milizie. Avea egli fatto fabbricar nel verno una prodigiosa quantità di barche con legni presi dai boschi di Nisibi; e per introdurle nel suddetto fiume, pensò ad un arditissimo e dispendioso ripiego, cioè di tirare un gran canale di acqua dall’Eufrate nel Tigri, per cui si potessero condurre le navi. Nacque sospetto, che essendo più alto l’Eufrate dell’altro fiume, potessero le di lui acque accrescere di soverchio la rapidità del Tigri, e che colà si volgesse tutto l’Eufrate, con perdersene anche la navigazione; e però non si compiè l’impresa; o se pur si compiè, non se ne servì Trajano. L’altro ripiego, a cui s’attenne, fu di condurre sopra carri barche fatte, ma sciolte, per unirle poi insieme sulle ripe del Tigri, e lanciarle quivi nel fiume. Così fu fatto. Di queste si formò un ponte; e tanta era la copia delle altre navi cariche di armati, che infestavano i Parti schierati sull’opposta ripa, e di altre che minacciavano in più luoghi il passaggio dell’armata, che i Parti non sapendo intendere, come in un paese privo affatto d’alberi, fossero nate cotante navi, e perciò sgomentati, presero la fuga. Passò dunque felicemente tutto l’esercito romano, e piombò sulle prime addosso al traditor Mebaraspe re dell’Adiabene, con sottomettere tutta quella provincia. Quin-

  1. Pagius, in Crit. Baron.
  2. Dio., lib. 68.