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La bega era grossa e bisognava uscirne al più presto, nel miglior modo possibile.

Di cosa in cosa si ricordò d’aver ricevuta una lettera nella quale il Botola gli parlava di avvocati, di processo, di Lorenzo.

Col Botola i Maccagno erano legati da un’amicizia che risaliva fino al quarantotto, fino ai tempi che il padre di Tognino, detto il Valsassina, cominciava a guadagnare i primi quattrini in una botteguccia di liquori fuori di porta. Venute le grosse brighe della rivoluzione, mentre gli «italianoni» facevano alle barricate, Botola e Valsassina introducevano in città molte brente di spirito di contrabbando, mettendo in questo modo la base alla fortuna.

Nell’agosto tornarono i castigamatti, ma la gente aveva tutt’altro per la testa che di verificare le bollette di dazio. Poi eran passate molte altre cose. Chi andò sulla forca, chi emigrò, chi tornò a portare il baldacchino. Annegò chi non seppe nuotare. E per poco non annegò anche il Botola, troppo corto d’ingegno e d’istruzione, per saper resistere ai tempi nuovi, bianchi, rossi e verdi. Fallito un paio di volte, il vecchio disgraziato vivacchiava meschinamente, facendo il pignoratario su piccoli prestiti.

Che cosa gli scriveva il vecchio amico? Cercando nelle tasche, trovò in mezzo a una mano di cartaccie un cencio con su disegnati certi scarabocchi grossi e sgangherati, che volevan dire parole, quantunque somigliassero più ai pali di una vigna battuta dalla tempesta, che non ai segni inventati da Cadmo. Il pignoratario riferiva d’aver parlato col Mornigani, il mezzo avvocato, e d’aver saputo che i parenti Ratta, Maccagno, Borrola, con altri diseredati, intendevano