Pagina:Ariosto, Ludovico – Lirica, 1924 – BEIC 1740033.djvu/97

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iv - capitoli 91

     Io son quel che solea, dovunque o dritto
arbor vedea o tufo alcun men duro,
de la mia dea lasciarvi il nome scritto;
     io son quel che solea tanto sicuro
35giá vantarmi con voi, che felice era,
ignaro, oimè! del mio destin futuro.
     S’io porto chiusa la mia doglia fiera,
morir mi sento, e, s’io ne parlo, acquisto
nome di donna ingrata a quell’altiera.
     40Per non morir, rivelo il mio cor tristo,
ma solo a voi, ch’in gli altri casi miei
sempre mai fidi secretari ho visto.
     Quel ch’a voi dico, ad altri non direi;
io credo ben che resteran con vui,
45come giá i boni or li accidenti rei.
     Quella, oimè! quella, quella, oimè! da cui
con tant’alto principio di mercede
tra i piú beati al ciel levato fui,
     che di fervent’amor, di pura fede,
50di strettissimo nodo da non sciórse
se non per morte mai speme mi diede;
     or non m’ama né apprezza ed odia forse,
e sdegno e duol credo che ’l cor le punga
che ad essermi cortese unqua si torse.
     55Una dilazion giá m’era lunga
d’una notte intermessa, ed or, ahi lasso!
il mio contento a mesi si prolunga.
     Né si scusa ella che non m’apra il passo
perché non possa, ma perché non vuole;
60e qui si ferma ed io supplico a un sasso,
     anzi a una crudel aspide, che suole
otturarsi l’orecchie, acciò placarse
non possa per dolcezza di parole.
     Non pur al suavissimo abbracciarse
65de l’amorose lotte, e ai dolci furti
le dolci notti a ritornar son scarse;