Pagina:Ariosto, Ludovico – Orlando furioso, Vol. III, 1928 – BEIC 1739118.djvu/299

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     Quivi Bardin di soma d’anni grave
stava piangendo alla bara funèbre,
che pel gran pianto ch’avea fatto in nave,
dovria gli occhi aver pianti e le palpèbre.
Chiamando il ciel crudel, le stelle prave,
ruggia come un leon ch’abbia la febre.
Le mani erano intanto empie e ribelle
ai crin canuti e alla rugosa pelle.

169
     Levossi, al ritornar del paladino,
maggiore il grido, e raddoppiossi il pianto.
Orlando, fatto al corpo piú vicino,
senza parlar stette a mirarlo alquanto,
pallido come colto al matutino
è da sera il ligustro o il molle acanto;
e dopo un gran sospir, tenendo fisse
sempre le luci in lui, cosí gli disse:

170
     — O forte, o caro, o mio fedel compagno,
che qui sei morto, e so che vivi in cielo,
e d’una vita v’hai fatto guadagno,
che non ti può mai tor caldo né gielo,
perdonami, se ben vedi ch’io piagno;
perché d’esser rimaso mi querelo,
e ch’a tanta letizia io non son teco;
non giá perché qua giú tu non sia meco.

171
     Solo senza te son; né cosa in terra
senza te posso aver piú, che mi piaccia.
Se teco era in tempesta e teco in guerra,
perché non anco in ozio et in bonaccia?
Ben grande è ’l mio fallir, poi che mi serra
di questo fango uscir per la tua traccia.
Se negli affanni teco fui, perch’ora
non sono a parte del guadagno ancora?