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atto quarto. — sc. i. 169

Costei condotta, che non dà audienzia
A cosa ch’io gli dica. In van ricordogli
Che vada al capitano di giustizia
A querelarsi, come fu il nostro ordine;
E che non lo facendo o differendolo,
Non è a minor pericolo di perdere
La cassa, che perduta abbia la giovane:
E forse riaver un dì la giovane
Potría, ma non la cassa, se dà spazio
Pur questa notte al ruffian di portarsela.
La qual cosa, oltra che serà certissima
Sua ruina e del padre, e sua ignominia,
Si susciterà contro una perpetua
Guerra in casa, e serà cagion ch’io misero
Mi marcisca in prigione, e che continua-
mente sia consumato in pene e strazii.
Oimè! forse anco mi saprei difendere
Da questa avversità, benchè gravissima,
Se un poco avessi a pensarci più termine,
Sol tanto ch’io potessi in me ricogliere
Lo spirto: ma da un lato sì mi stimula
Il timor che ’l ruffian le some carichi
Questa notte; dall’altro, che Crisobolo,
Che mi par tuttavía di veder giungere,
Non sia qui all’improvviso, e in guisa m’occupi,
Che non mi lasci pur tempo di avvolgermi
Un laccio al collo e dar de’ calci all’aria.
Or ora ho inteso da un servo di Pontico,
Che vien dal molo, che molti navilii
Son ritornati e tuttavía ritornano
Per li venti da mar, che non li lasciano
Uscir del porto e in terra li ricacciano.
Ma che lume veggo io venir? Dio, aítami,
Che non sia il vecchio! Oimè! gli è senza dubbio
Il vecchio, gli è il patrone, gli è Crisobolo.
Tu sei morto, Volpin: che farai, misero?
Misero, che farai? A chi ricorrere,
A chi voltar mi debbo? ove nascondere,
Ove fuggir, ove mi posso subito
Precipitar, e levar dai supplicii
Che veggo questa notte apparecchiarmisi?




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