Pagina:Büchler - La colonia italiana in Abissinia, Trieste, Balestra, 1876.pdf/187

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centrale, ed i quali, a parer suo, dovevano derivare in linea retta dal ceppo antico del popolo d’Israel. Il console, poco dopo, ci lasciò.

Ma il tugurio dell’Ebreo bastava appena per lui, e noi dovemmo passar le notti all’aperto, o, tutt’al più, rannicchiati sotto qualche cespuglio, disturbati nel sonno dai ruggiti delle iene.

Anche le giornate passavamo melanconiche e tristi, e, riguardo al cibo, la faccenda era ancora peggiore. Si beveva poi dell’acqua infetta, nella quale talvolta si cuoceva un po’ di riso, che, a stento e verso esuberante compenso, potevamo ottenere dai soldati indiani.

Alcuni datteri che ci servivano di companatico, completavano il nostro vitto.

Per conto d’acqua, anche gl’Indiani, la ciurma inglese ed i loro graduati, non istavano meglio di noi. Essi erano stati costretti a far iscavare dagl’indigeni di Zula alcune fosse, da cui poscia attingevasi un’acqua fangosa che bisognava filtrare attraverso un lino per purgarla alla meglio; ma tanto e tanto il suo sapore era nauseante ed i suoi effetti dannosissimi alla nostra fisica costituzione. Gl’Inglesi però, non potendone usare, avevano in prossimità alla spiaggia stabilito un laboratorio per convertire l’acqua del mare in acqua dolce.

Non andò guari ch’io mi ammalai, e non pertanto mi aggirava sostenuto dal bastone qua e là per darmi coraggio e non lasciarmi sopraffare dalla debolezza. Bramoso di bere un sorso di acqua migliore di quella che bevevo giornalmente, mi trascinavo qualche giorno appunto sino alla spiaggia, raccomandandomi a qualche Indiano per poterne tracannare un bicchiere.

Tra il 17 ed il 18, mi assalsero acutissimi dolori alle gambe, i quali non mi permisero di più muovermi