Pagina:Büchler - La colonia italiana in Abissinia, Trieste, Balestra, 1876.pdf/57

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Le gambe mi si piegavano ad ogni due passi; ma, tant’è, bisognava sforzarsi; tanto più che l’indigeno, più forte e più pratico di me, mi avanzava d’un buon tratto e volgevasi sovente a borbottarmi: szeè... szeè, che significa: correte.

La corsa durò quasi un ora, non priva di inconvenienti, a motivo delle sinuosità e scabrosità del terreno, e per la quantità di spini che sporgevano dalle piante, per cui ne uscii colle vesti stracciate, le mani e la faccia rigate di sangue.

Giovommi però molto quella tal cuffia che aveva acquistato a Gedda, e che pensò a ripararmi dalle punture alle tempie ed alla testa, chè gli occhi m’era convenuto lasciarli in balia del caso, tanto si rendevano necessari per vedere ove movessi. La buona ventura, però me li tenne salvi, sebbene più d’una volta le mani si fossero insanguinate per essi. Talora mi accadde di dover fermarmi nella corsa, per essersi la berretta scontrata in qualche spina; ed allora, liberandomene, perdevo terreno; la qual cosa mi costringeva a raddoppiar poscia di lena e di sollecitudine per raggiungere il mio salvatore. Ogni qualvolta mi accadevano di siffatti inconvenienti, mi assaliva una tal rabbia, che avrei lacerato coi denti o sbranato colle mani non saprei quale inimico; parevami che avrei lottato persino contro una tigre.

L’indigeno si corrucciava per dovermi aspettare, e picchiava bruscamente il suolo colla sua lancia, in segno d’impazienza. Per tutto compianto delle mie punture, mi ripeteva in tigrè: Aghid, aghid... (presto, presto).

Finalmente, uscimmo da quell’orrida foresta, e ci trovammo in un sito meno folto e assai più praticabile. Rallentammo allora la corsa, che però equivaleva sempre ad una marcia militare forzata. Lo scopo era quello