Pagina:Büchler - La colonia italiana in Abissinia, Trieste, Balestra, 1876.pdf/66

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lità di rilievo, scoprimmo un piccolo paese dei Beniahmer, dal quale, usciti alcuni indigeni, ci mossero incontro. Innanzi a tutti procedeva con lestezza pari ad esaltazione un giovane d’alta statura, ben complesso ed elegante nelle forme. Aveva capelli neri e ricciuti, occhi rossicci scintillanti, lo sguardo severo ed una bella bocca, entro a cui spiccavano due fila di denti più bianchi dell’avorio.

Costui si avanzava con passo franco e sollecito, palleggiando, quasi in tuono di braveria, un nodoso bastone curvo, di qualità si dura che solo il ferro avrebbe potuto competergli. Questo arnese trovasi di continuo in mano a quegl’indigeni e se ne fanno istrumento indispensabile in tutte le loro azioni.

Ne fanno uso speciale quando seggono a consiglio e stanno deliberando sui propri affari e sciogliendo liti e questioni. Mentre discorrono colla calma più perfetta, non istanno un istante tranquilli con quel bastone, ma vanno solcando il terreno a parecchie guise. Dissi quando discorrono, perchè soltanto agli oratori, ognuno alla sua volta, è permesso far ciò; mentre gli altri che ascoltano paiono statue di cioccolatte.

Nei casi di diverbî o per qualche punto di diritto, il bastone serve a battere il suolo con veemenza, ritornando poscia alla calma primitiva testochè l’oratore abbia esposto la sua opinione.

Talvolta avviene, che, nel calore d’una disputa, quel bastone si riversi più spesso sulla testa che sulle spalle d’un antagonista, il più delle volte procacciandogli contusioni e ferite e non troppo di rado facendogliene uscir le cervella. Quel bastone insomma è il vade mecum o il vero redde rationem di quegl’indigeni.