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delle preponderanze straniere |
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all’intorno, che parea dover
essere gran fondatore d’una nuova nazione italiana, come furono le
contemporanee francese, spagnuola ed inglese; che non fu se non d’un
regno di pochi anni, grazie all’inquieto desiderio dell’imperio e
del nome di Roma che s’apprese agli italiani, che fece chiamare i
greci, cadere i goti, e sottentrare in un dieci anni i longobardi.
Seguono dugent’anni di questi, incapaci di conquistare tutta Italia,
incominciatori del dividersi di essa fino a noi, fino ad ogni avvenire
prevedibile; incapaci di governar le province occupate, di serbarle,
contro ai papi capipopolo di Roma, ed ai loro patrizi ed amici,
i Carolingi di Francia. Poco rincrescimento rimane della caduta
di que’ longobardi, che, mischiati poscia con noi nella sventura
comune, lasciaron il sangue piú abbondante che sia forse in nostre
schiatte. — Segue la quinta etá, di Carlomagno e dei suoi discendenti
e successori, imperatori e re stranieri; imperatori, per lo stolto
piacer presoci di gridare un imperator romano; re, per quelle invidie
che ci fecero sempre parlare, piangere, adirarci contro agli stranieri,
ma in fatto anteporli a’ nazionali; quelle invidie di sotto in su,
e di sopra in giú che diedero l’Italia a quell’Ottone pur troppo
grande, dal quale in poi, salvo le due brevi eccezioni d’Arduino e di
Napoleone, sempre rimase tedesca la corona veramente ferrea d’Italia o
di Lombardia. E naturalmente, questa fu la peggiore, l’infima, la piú
corrotta delle nostre etá; corrotti principi e signori, uomini e donne,
sacerdoti e vescovi e papi, tutto l’ordine feodale secolare, e quasi
tutto l’ecclesiastico sottopostosi simoniacamente a quella feodalitá;
sorgente sí il popolo, che deve quindi credersi men corrotto; sorgenti
qua e lá alcuni monaci studiosi, zelanti, riformatori, riformati, e fra
e sopra essi Ildebrando, Gregorio VII. — E quindi, da questo pontefice,
non incolpevol forse, ma gran riformatore, gran santo, grand’uomo
politico, gran rivendicator d’indipendenza ecclesiastica, grande
aiutator d’indipendenza politica, e, senza saperlo, forse di libertá,
noi incominciammo l’etá sesta, la maggiore delle nostre moderne,
l’etá de’ nostri comuni, di quel nostro secondo primato che fu piú
veramente di colture che di civiltá; e cosí facemmo