Pagina:Bartoli - Dell'uomo di lettere II.djvu/5

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Platone da un maldicente udì tacciarsi di ladro, con querela fatta a nome di Filolao, come se avesse non vo’ dire trascritta da lui gran parte del suo Timeo, ma impolpatolo di buon sugo succiato da gli scritti di quel secondo Pitagora. Eccovi l’accusa datagli da Timone:

Exiguum redimis grandi ære libellum. Scribere per quem orsus perdoctus ab inde fuisti.

E certo, se vi fosse un’Archimede, che sapesse ne’ libri distinguere, quasi misto di due metalli, il proprio e l’altrui; se un’Aristofane giudice, che intendesse la lingua de’ morti, quando parlano per bocca de’ vivi; se un Cratino, che mettesse i libri alla tortura e facesse il processo de’ loro furti, come egli fece delle Poesie di Menandro de’ cui ladronecci compose sei libri; vedreste quanto sia vero, che Mercurio Dio de’ Letterati è insieme Dio de’ Ladri.

Là in tre ordini, l’uno peggior dell’altro, pare a me che ripartire si possa tutta la massa di coloro, che ne’ loro libri publicano sotto proprio nome le altrui fatiche. Sono i primi coloro, che cogliendo da chi una e da chi un’altra cosa, e trasportandole or sotto diverso titolo e or con ordine contrario, tessono i libri come le ghirlande, nelle quali molti pochi fanno un bel tutto, molti fiori fanno una corona. Hanno questa discrezione, di rubar poco ad ognuno, perché niuno si dolga, e pochi s’avveggan del furto; e (dirò così) non rubano le monete, ma le tosano.

Il nome di questi Autori, a gran caratteri maestosamente scritto nella prima faccia del libro, stupisce di vedersi padre di tanti frutti, de’ quali egli sa di non aver né virtù produttrice, né seme che generar li possa:

Miraturque novas frondes, et non sua poma.

Si vede ricco di tanti stabili e pur sa di non aver né rendita, né capitale bastevole a sì gran compera.

Hanno dipoi costoro per legge di non raccordar mai gli Autori, ne gli scritti de’ quali ferono caccia; sospettando, e con ragione, di non esser conosciuti più