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274 capitolo xii.


ed alla mattina dopo, 28 Giugno, dato un cordiale addio all’ospite partimmo.

Dovevamo ritornare anche troppo presto.


La mattinata era limpida e fredda: una bella mattinata del nostro febbraio. Il lago calmo, senza un’onda, senza un’increspatura, aveva una diafanità d’aria; ci pareva di respirarlo. Soltanto il Baikal ha nei giorni puri certe apparenze di eterea leggerezza, certe serenità pallide da cielo rovesciato, che alla vastità immensa aggiungono l’impressione d’una profondità infinita e luminosa. La riva coperta di boschi spingeva sull’acqua penisolette folte di vegetazione, scapigliate e verdi, e l’acqua le rifletteva, le faceva sembrare doppie e sospese. Stormi di grandi uccelli bianchi, simili ai gabbiani marini, roteavano sul lago, e ne rivelavano la superficie sfiorandola. La nostra ammirazione fu breve. La strada volle tutta la nostra attenzione, e dimenticammo presto l’incanto del paesaggio.

La strada non era soltanto abbandonata: era anche devastata. Valicavamo ripide colline che la furia delle acque durante il disgelo aveva tormentato, corroso, bucato. Salivamo e scendevamo dei veri gradini. Superavamo certi passi scoscesi facendo prendere alla macchina una veloce rincorsa. La macchina sbuffava, fremeva, balzava nelle asperità del suolo, si sollevava al primo urto delle ruote sulla salita come impennandosi. E talvolta, giunta quasi alla cima si fermava impotente, e doveva dare indietro per prendere un nuovo slancio più lungo e di maggior lena.

Altrove la strada era coperta d’erbe, assalita da boscaglie selvagge, ingombra d’alberi caduti, di rami secchi trascinati lì da qualche inondazione. In alcuni punti, dove si bordeggia la riva, le tempeste del Baikal hanno abbattuto le palizzate, hanno morso la terra, facendo franare parte della strada. Procedevamo cautamente sullo stretto ciglione, vedendo sotto di noi la calma trasparenza del lago.

Le antiche stazioni di posta erano disabitate, mezzo demo-