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a fior d’onda | 285 |
ve. È una grande bestia marina, un favoloso cetaceo di acciaio che porta una torre sulla groppa, come l’elefante domato, e che si lascia guidare dal suo cornac.
Una vaga opalescenza d’alba comincia a sbiancare l’oriente, e una fascia di foschìa lontana taglia il chiarore soffuso del cielo e del mare. La calma è divenuta così profonda che dei riflessi di stelle guizzano pallidamente sulla lucida seta delle ondate lente.
Non si vede la terra ma si sente. Si sente l’odore salmastro e amaro di alga e di roccia bagnata che mandano le scogliere nella quiete estiva. La terra è laggiù, dentro quella bruma. Sotto la luce perlata che preannunzia l’aurora, si allarga a poco a poco lo sterminato deserto dell’acqua, livido, desolato, sinistro.
Non un alito di vento. Una melanconia accasciante è in questa calma pesante e funerea. Nessun battello sente come il sommergibile l’assedio della solitudine. Quel gruppo d’uomini intorno ad una sporgenza metallica a fior d’acqua appare disperatamente solo nel primo lividore del giorno, solo e abbandonato come un grappolo di naufraghi sopra un rottame perduto nell’immensità di un oceano.
Il sottomarino è il terribile solitario dei mari.
Deve esser solo. Se avesse dei compagni intorno, sommersi, non potrebbe riconoscerli. Deve esser solo e sentirsi solo. Viene sguinza-