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Pietro Bembo - Rime

LXVI.

Lieta e chiusa contrada, ov’io m’involo
al vulgo e meco vivo e meco albergo,
chi mi t’invidia, or ch’i Gemelli a tergo
lasciando scalda Febo il nostro polo?4

Rade volte in te sento ira né duolo,
né gli occhi al ciel sì spesso e le voglie ergo,
né tante carte altrove aduno e vergo,
per levarmi talor, s’io posso, a volo.8

Quanto sia dolce un solitario stato
tu m’insegnasti, e quanto aver la mente
di cure scarca e di sospetti sgombra.11

O cara selva e fiumicello amato,
cangiar potess’io il mar e ‘l lito ardente
con le vostre fredd’acque e la verd’ombra.14

LXVII.

Né tigre sé vedendo orbata e sola
corre sì leve dietro al caro pegno,
né d’arco stral va sì veloce al segno,
come la nostra vita al suo fin vola.4

Ma poi, Gasparro mio, che pur s’invola
talor a morte un pellegrino ingegno,
fate sia contra lei vostro ritegno
quel, ch’Amor v’insegnò ne la sua scola,8

spiegando in rime nove antico foco,
e i doni di colei, celesti e rari,
che temprò con piacer le vostre doglie;11


Letteratura italiana Einaudi 42