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108 | capo xx. |
di Avignone, i patrimoni della Chiesa posti in Italia fruttando al primo, l’altro onde mantener sè e i trentasei cardinali del suo partito pensò di riservarsi i più pingui beneficii e le spoglie de’ vescovi e degli abati e di tutti i beneficiari che morivano. E quest’usanza che faceva colare più milioni di scudi ogni anno nell’erario pontificio, comechè introdotta da uno scismatico ed antipapa, fu trovata molto dogmatica e continovata ed accresciuta dai pontefici legittimi e veramente infallibili; di forma che Pio IV nel 1560 statuì che sotto il nome di spoglie si dovesse comprendere qualsiasi civanzo fatto da’ cherici anco con mezzi illeciti, a tal che se un prete si era arricchito facendo l’usuraio o il contrabbandiere, o tenendo bisca o postribolo, quegli infami guadagni appartenevano per jus divino alla Sacra Romana Chiesa.
Tanti furono gl’ingegni con cui i cherici e la corte di Roma seppero acquistare sterminate ricchezze, ma non furono meno felici nel modo di conservarle. Anticamente i beni della Chiesa essendo destinati al sollievo de’ poveri, il vescovo o il paroco poteva alienare non manco essi che i vasi sacri quando si trattava di far bene, come nelle occasioni di guerre, di pestilenze, di carestie, d’incendi, o per riscattar schiavi o per altra filantropia; ma dopo che quei beni passarono al puro godimento dei preti e in piena potestà del papa, il far queste cose divenne peccato, e fu statuito che i beni ecclesiastici fossero inalienabili: donde avvenne che il Clero acquistando sempre e non dando mai, in progresso di tempo diventò padrone di tre quarti degli stabili in quasi