Pagina:Boccaccio - Decameron di Giovanni Boccaccio corretto ed illustrato con note. Tomo 5, 1828.djvu/240

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baciavano, e parole tra i baci mescolando, si dimandavano insieme, se tu, quando quella cosa scrivevi, eri desto, o se sognavi; e talvolta dicevano, parti che costui abbia l’arco lungo? Vedesti mai così nuovo granchio? Per certo questi l’ha cavalcata: egli è di vero uscito del sentimento e vuole esser tenuto savio: domine dagli il malanno: torni a sarchiare le cipolle e lasci stare le gentildonne. Che dirai? arestil mai creduto! Deh quante bastonate gli si vorrebbono far dare: anzi li si vorrebbe dare d’un ventre pecorino per le gote tanto, quanto il ventre o le gote bastassero. Ahi cattivello a te! Come t’erano quivi con le parole graffiati gli usatti, e come v’eri per meno che l’acqua versata dopo le tre! Le tue Muse da te amate e commendate tanto quivi erano chiamate pazzie, e ogni tua cosa matta e bestiale era tenuta, e oltre a questo v’era assai peggio che per te; Aristotile, Tullio, Virgilio e Tito Livio e molti altri uomini illustri (per quel ch’io creda, tuoi amici e domestici) erano, come fango, da loro e scherniti e annullati, e, peggio che montoni maremmani sprezzati e avviliti: e in contrario sè medesimo esaltando, con parole da fare per stomacaggine le pietre saltare del muro e fuggirsi, soli sè esser dicevano l’onore e la gloria di questo mondo; di che io assai chiaramente m’avvidi, che ’l cibo e ’l vino disordinatamente presi da loro, o il desiderio di compiacere l’uno all’altro, schernendoti, di sè medesimi, ne’ quali forse non furono giammai, gli avea tratti. Con queste parole e con simili e con molte altre schernevoli lunga pezza della notte passarono, e per aver più cagione di farti dire e scrivere, ed essi di poter di te ridere e schernirti, quivi