Pagina:Boccaccio - Filocolo di Giovanni Boccaccio corretto sui testi a penna. Tomo 2, 1829.djvu/198

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nel mondo venisti? O Apollo, a cui niuna cosa si nasconde, perché la tua luce ne desti? Tu mostrandoti chiaro insieme ti mostri crudele, però che già per minori danni nascon desti i raggi tuoi a’ mondani. Oimè, Florio, a che vile partito mi ti veggio avanti! Oimè, come può l’anima sostenermi tanto in vita, pensando che nol siamo cagione di commovimento a tutta Alessandria, pensando che tante migliaia d’occhi solamente noi guardino, solamente di noi ragionino, solamente di noi pensino, pensando ancora con quanto vituperoso parlare sia da’ riguardanti ciascuna parte di noi, che ignudi a’ loro occhi dimoriamo, sia riguardata? Caro ne saria il campare, ma non il vivere in questo luogo. O sommi iddii, i cui pietosi occhi il mio peccato ha rivolti altrove, che ha meritato Florio, che questa morte sia da voi sofferto ch’egli sostenga? Egli ha amato, e amando ha fatto quello che voi già faceste. Costretto è ciascuno di seguire le leggi del suo signore. Egli fece quello che Amore gli comandò; ma io, malvagia femina, non servai il dovere all’amiraglio, sotto la cui signoria mi stringieno i fati. Io sola peccai, dunque io sola merito di morire; muoia dunque io, e Florio, che niente ha meritato, viva. O iddii, se in voi pietà alcuna è rimasa, purghisi l’ira vostra e quella dell’amiraglio sopra me. Se Florio campa, io contenta piglierò la morte. Cessi che per me, vile femina, muoia un figliuolo d’un sì alto re! Oimè, or che dimando io? Già è manifesto che i miseri indarno cercano grazia. Oimè, come tosto è in tristizia voltata la brieve allegrezza! Oh, quanto è picciolo stato lo spazio del nostro matrimonio, il quale noi pregavamo gl’iddii che ’l dovessero etternare! Certo