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SOPRA DANTE | 47 |
similmente seppelliti insieme. Fu costui al tempo del re Artù e della tavola ritonda. Egli ancora fu de’ cavalieri di quella tavola: e più di mille
Ombre mostrommi, e nominolle a dito,
dice mille, quasi molte, usando quella figura la qual noi chiamiamo iperbole: Ch’amor, cioè quella libidinosa passione la qual noi volgarmente chiamiamo amore, di nostra vita dipartille, con disonesta morte; perciocchè per quello morendo, onestamente morir non si puote. Poscia ch’io ebbi. Qui comincia la quinta parte del presente canto, nella qual dissi, che l’autore con alcuni spiriti dannati a questa pena parlava, e dice:
Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
Nomar le donne antiche e i cavalieri,
che di sopra ha nominati,
Pietà mi vinse, e fui quasi smarrito.
In queste parole intende l’autore d’ammaestrarci, che noi non dobbiamo con la meditazione semplicemente visitar le pene de’ dannati; ma visitandole e conoscendole, e conoscendo noi di quelle medesime per le nostre colpe esser degni, non di loro, che dalla divina giustizia son puniti, ma di noi medesimi dobbiamo aver pietà, e dover temere di non dovere in quella dannazion pervenire, e compugnerci ed affliggerci, acciocchè tal meditazione ci sospinga a quelle cose aoperare le quali di tal pericolo ne tragghino, e dirizzinci in via di salute. E usa l’autore di mostrar di sentire alcune passioni, quando maggiore, e quando minore in ciascun luogo: e quasi dove alcun