Pagina:Boccaccio - Ninfale fiesolano di Giovanni Boccaccio ridotto a vera lezione, 1834.djvu/228

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58 a messer francesco

mo sì è, se esso vegga o senta gli amici infermi; non che egli gli aiuti, com’è usanza degli amici, o almeno di parole gli conforti, ma egli non vuole udire i bisogni degli amici deboli: e se e’ si guardasse a lui, senza consiglio di medico, e senza aver sacramenti, nella stalla infermi si morrebbono. Questo inumano costume chi non arebbe in orrore? chi nol temerebbe? È egli niuna sì crudele barbaria, nella quale non sia l’amicizia con alcuna pietà onorata? Indarno gli esempli degli uomini grandi leggiamo, anzi dannosamente, se noi operiamo il contrario. Questo non insegna quel Valerio, al quale il tuo Mecenate spesse volte usò dire che egli è familiarissimo. E’ si dovrebbe ricordare Marco Marcello aver date le lagrime alla infelicità de’ Siracusani, e da queste pigliare, se a’ nimici dagli uomini chiari son date, quali sieno dovute agli amici. E similemenie la laudevole opera d’Alessandro di Macedonia re dovrebbe a memoria rivocare, al quale, vincitore d’Asia, stante la gelida neve, parve agevole discendere della reale sedia, la quale era presso al fuoco, e in quella avere posto colle proprie mani un soldato de’ minori e vecchio, già pel troppo freddo mancante, acciocchè l’agio del fuoco sentisse. Certamente per la clemenza nella fede e nel servigio si solidano gli animi degli amici, ed aumiliansi quelli de’ nimici, dove per la bruschezza e negligenza degli amici si partono.

Oltre a questo sono a lui leggi non so se date da Foroneo, da Licurgo o da Cato, per le quali avviene che se alcuno che con lui muoia ha alcuno avere,