Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
parte seconda | 43 |
XLV.
Ma come fa ’l tizzon ch’è presso spento,
E sol rimasto v’è una favilla,
Ma poi che sente il gran soffiar del vento,
Per forza il fuoco fuor d’esso ne squilla,
E diventa maggior per ogn’un cento;
Tale Affrico sentì, quando sentilla
A lui parlar con sì pietosa voce,
XLVI.
E gridò forte: ora volesse Giove,
Poi che tu vuoi, che tu m’avessi morto
A questo tratto, acciocchè le tue prove
Fusson compiute, avendomi al cor porto
L’aguto ferro, il qual percosse altrove;
E come che tu abbia di ciò ’l torto,
Io pur sarei contento d’esser fuore,
XLVII.
Appena avea finito il suo parlare
Affrico, quando Mensola giugnea
In sul gran monte, e videla passare
Dall’altra parte, e più non la vedea;
Onde di ciò molto mal ne gli pare,
Perch’ella innanzi a lui tal campo avea,
Che temea forte che lei di veduta,
Com’egli avvenne, non aver perduta.